CO2 e competitività industriale

Pubblicato il 27 Apr 2015

Ospitiamo volentieri l’articolo di Agime Gerbeti, autrice del libro “CO2 nei beni e competitività industriale europea”, che contiene proposte e approccio innovativo al pressante problema posto dal bilanciamento tra politiche ambientali e politiche industriali.

Si parla tanto di ambiente e cambiamenti climatici, il 22 aprile è stata anche la Giornata Mondiale della Terra, ma spesso manca una vera visione d’insieme. Soventemente è un utile argomento a sostegno di interessi opportunistici. Gli ambientalisti sostengono una de-industrializzazione per un mondo migliore e gli industriali europei lamentano una mancanza di competitività sui mercati internazionali per i costi diretti (ETS) e indiretti (l’alto costo energetico e il sostegno delle fonti rinnovabili).

Strano ma – come ho cercato di dimostrare nel mio libro “CO2 nei beni e competitività industriale europea” – hanno entrambi ragione.

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Il prezzo energetico per unità di prodotto è in Europa molto maggiore dei competitor Cina e Usa. Giusto per fare un esempio, il prezzo del petrolio tasse comprese, nel dicembre 2014, in Italia era il 250% del costo negli Usa e il diesel solo il 220%. Il costo dell’elettricità, stante 1 in Usa è pari a 1,7 in Cina e addirittura 2,2 in Europa. Se poi si considera che il costo italiano dell’elettricità è, sempre compresi gli oneri generali e le tasse, pari al doppio di quello francese, il 150% di quello nel Regno Unito e superiore del 20% a quello tedesco, risulta chiaro che i nostri produttori dovranno essere molto, ma molto bravi per non vedere i propri beni penalizzati sui mercati.

Dipende solo dal costo del vettore energetico? Una grandissima parte è conseguenza di politiche finalizzate alla riduzione delle emissioni attraverso l’utilizzo di gas, per il quale mancano infrastrutture sufficienti a rendere l’Europa cliente avveduto, e dalla ridistribuzione dei costi al sostegno delle fonti rinnovabili all’interno della tassazione energetica. Non solo, ma anche i costi diretti della CO2, in termini di acquisto di quote a emettere, diverranno ogni anno più gravosi.

Mai, però, dovremmo rinunciare agli impegni ambientali a favore di una maggiore competitività industriale. Secondo l’IPCC (International Panel on Climate Change è il foro scientifico delle azioni Unite istituito con lo scopo di indagare sul riscaldamento globale e i cambiamenti climatici) il trentennio 1983-2013 è stato certamente il più caldo degli ultimi 1400 anni, i gas a effetto serra sono a livelli mai raggiunti negli ultimi 800.000 anni, il livello del forcing di radiazioni solari è diretta conseguenza dell’incremento della CO2 in atmosfera e – a scanso di equivoci – l’influenza umana è decisiva per il cambiamento climatico!

Riccardo Valentini, premio Nobel con l’IPCC, afferma che per la prima volta sono state fatte ipotesi su un aumento di temperatura tra i 4 e i 6 gradi, e che “in questo caso l’impatto sulla vita del pianeta sarebbe pesantissimo: i biologi ormai parlano di sesta estinzione di massa”. 936 parti di CO2 per milione e la Terra ridotta a una foresta tropicale intorno a un deserto sahariano.

La proposta contenuta nel libro “CO2 nei beni e competitività industriale europea” consiste nel considerare e valorizzare, ai fini dell’immissione sul mercato europeo, la CO2 come una materia prima utilizzata nella produzione dei beni (in conseguenza del mix energetico utilizzato), a prescindere da dove questi vengano prodotti. Cinquecento milioni di europei importano e consumano più del doppio di un miliardo e trecento milioni di cinesi. Gli USA ci seguono da vicino ma, occorre sottolineare con forza, gran parte delle importazioni statunitensi vengono proprio dall’Europa, con la conseguenza che i consumatori statunitensi consumano prodotti ad “alta efficienza” emissiva in quanto prodotti europei. Le bilance commerciali di EU e USA sono sproporzionatamente in negativo per Cina, Russia, Brasile e, presto, con l’India. Quindi l’Europa non solo importa CO2, ma i consumatori europei contribuiscono in termini decisivi a sostenere le economie dei PVS (vd. Grafico Trade on Goods EU-China).

Questo non comporta un costo ulteriore per il consumatore europeo già in difficoltà per colpa della crisi ma, semplicemente, il mercato potrà scegliere il prodotto a bassa intensità di carbonio, magari prodotto nell’efficiente e pulita Europa, anche perché non gravato da una tassa sul carbonio e dunque (anche) più conveniente.

Già oggi il sistema produttivo mondiale si adegua alle normative ambientali poste dall’EU, basta pensare agli standard “Euro” validi per le automobili prodotte dalla Volkswagen come dalla Hyundai o dalla Toyota e destinate anche a mercati non europei, o all’utilizzo di determinati materiali non tossici nella produzione di giocattoli.

Questo, peraltro, potrebbe essere un modo per creare le condizioni per un abbassamento mondiale delle emissioni, con ricadute ambientali più rapide di qualunque accordo globale, necessariamente dilazionato nel tempo.

Il punto della questione non ė abbassare i nostri obiettivi ambientali, quanto esortare il resto del mondo a seguire l’Europa. Se l’Europa ha scelto di essere un modello virtuoso nelle politiche ambientali, dovrà prendersi anche le responsabilità della leadership.

di Agime Gerbeti 

 

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