Da Uber ai PIR, i segnali del cambiamento

Il cambiamento è un processo a zig zag. L’Italia più conservatrice dice no a Uber, ma altri passi, ad esempio i PIR, sembrano andare nella giusta direzione

Pubblicato il 08 Apr 2017

Il tribunale di Roma dice che Uber non può più operare in Italia adducendo la sleale concorrenza nei confronti dei servizi di taxi. La notizia è di quelle che, al di là delle implicazioni specifiche, fanno riflettere sul continuo scontrarsi tra chi crede che l’innovazione vada sostenuta in modo deciso e chi invece resta convinto del valore delle rendite di posizione. Un problema di certo non solo italiano e un problema che è figlio del fatto che stiamo nel mezzo del guado, stiamo vivendo il processo di cambiamento paradigmatico che è ancora ben lontano dall’essere maturo, semmai lo sarà, e che cambia le regole di base dell’economia e della società.

Un cambiamento al quale bisogna arrivare però e che anche le pubbliche istituzioni hanno il dovere di tenere presente, e possibilmente di comprendere, nonché di parteciparvi attivamente. Non di rado qui su Startupbusiness siamo stati, sempre argomentando e proponendo alternative, critici con le misure che le pubbliche amministrazioni centrali e locali hanno preso nell’intento di sostenere lo sviluppo di aziende innovative, delle startup. Misure, a volte perfino bizzarre,  che solo in minima parte hanno prodotto risultati accettabili e che quindi andrebbero riviste profondamente come abbiamo più volte scritto, descritto e proposto su queste colonne. Benché lo scenario sia ancora poco felice, e il dato che più svetta è quello dell’ammontare degli investimenti in startup che nel 2016 sono stati in Italia meno di dieci volte di quelli della Francia , va detto che qualche segnale potenzialmente positivo è giunto e sta giungendo.

Da un lato c’è stato l’innalzamento della detrazione fiscale per chi investe nelle startup innovative (quelle iscritte all’apposito registro s’intende, altro tema delicato di cui abbiamo già ampiamente scritto ) , passata dal 19 al 30% che è certamente una buona cosa, almeno sulla carta perché la detrazione è ora quantomeno più alta della tassazione sul capital gain che sta al 26%, e che a fine anno valuteremo in termini di capacità di avere dirottato nuovi capitali sulle startup ricordando che lo scorso anno dei circa 200 milioni di euro investiti in startup in Italia il 30% è andato a startup non iscritte al registro di Stato, un segnale che ha dato la misura di come il 19% di detrazione non fosse forse elemento determinante agli occhi degli investitori. Vedremo cosa accadrà con il 30%.

Poi ci sono i PIR, i Piani individuali di risparmio, strumento introdotto anch’esso dalla legge finanziaria ultima (Legge di Bilancio 2017) che riprendono un modello già presente all’estero e che consente ai privati di investire sulle imprese con una modalità vantaggiosa dal punto di vista fiscale, esenzione dal capital gain e esenzione tassa di successione, e con alcuni vincoli: non più di 30mila euro l’anno, mantenimento dell’investimento per almeno 5 anni, importo complessivo investibile 150mila euro, investimenti destinati per almeno il 70% su imprese italiane o europee con organizzazione stabile in Italia. Tecnicamente i Pir (si possono facilmente trovare descrizioni tecniche sullo strumento su vari siti online) potrebbero quindi dare impulso allo spostamento di parte dei capitali investiti in Italia a sostegno diretto delle imprese, non solo startup, ma sono ancora oggetto di dibattito perché alcuni li vedono come poco efficaci e più buoni a fare marketing che a portare effettivo impulso, mentre altri li considerano il nuovo modo con cui le banche possono finanziarsi. Anche qui, come per la detrazione al 30%, sospendiamo giudizi di merito anche perché, vista la natura ancora relativamente giovane di queste misure, non è ancora possibile disporre di numeri sufficientemente significativi per poter disegnare la parabola di impatto che esse hanno, ma di certo meritano attenzione sia da parte di chi deve finanziare la sua impresa, che sia startup o pmi, sia da parte di chi con lungimiranza ha compreso che investire esclusivamente in strumenti puramente finanziari non è più sufficiente se si vuole puntare a rendimenti capaci di dare qualche soddisfazione.

Infine ci si attendono ulteriori novità, ottimisticamente anche durante il secondo trimestre di quest’anno, con la nascita di nuovi fondi di investimento di vario tipo e di varia natura, compreso uno gestito dal Fondo Italiano e che dovrebbe essere dedicato a operazioni verso le cosiddette scaleup, quindi sulle startup già un po’ cresciute. Questo fondo avrà presumibilmente una dotazione tra i 100 e o 200 milioni di euro e giungerà a colmare una delle lacune che si stanno iniziando a rivelare significative nell’ecosistema italiano: gli investimenti Series B e Series C. Lacuna che si manifesta con sempre maggiore evidenza perché, finalmente, inizia a esserci un buon numero di scaleup made in Italy che stanno diventando grandi e internazionali e che hanno bisogno di crescere in modo sostanziale e che quindi sono a caccia di investimenti mediamente compresi tra i 3 e i 10 milioni di euro. Alcune di queste scaleup hanno trovato tali investimenti all’estero (si vedano per esempio alcune di quelle che hanno partecipato a ScaleIT), segnale non certo negativo perché denota la crescita di attenzione da parte degli investitori internazionali verso le imprese innovative italiane e perché accelera il processo di internazionalizzazione di queste scaleup, ma certo la disponibilità di un fondo di investimento italiano destinato alla fase di grow-up si pone come ulteriore tassello importante per far compiere passi avanti nella maturazione dell’ecosistema stesso.

Torneremo a guardare come questi strumenti: le nuove e maggiorate detrazioni, i Pir, i nuovi fondi si tradurranno in crescita numerica degli investimenti alla fine dell’anno, ma intanto vale la pena segnalare che vi sono elementi nuovi potenzialmente efficaci.

@emilabirascid

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