Quanto (poco) si investe sulle start up italiane del turismo

Il turismo vale il 12% del PIL nazionale, il turismo è oggi un’industri digitale, ma gli investimenti nelle start up italiane del turismo latitano. Ne parla Pietro Ferrraris, presidente di AST.

Pubblicato il 02 Dic 2016

Il turismo rappresenta il 12%del PIL nazionale, è oggi un’industria almeno in parte digitale, ma gli investimenti nelle start up italiane del turismo sono ancora molto bassi.

pietro-ferraris
“L’associazione Startup Turismo (AST) raccoglie 109 startup italiane che si occupano di travel. Secondo un censimento degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano le startup travel in Italia sono 144. Quindi come Associazione rappresentiamo circa il 75% di questo ecosistema – dice Pietro Ferraris, presidente dell’Associazione startup turismo (Ast) illustrando a Startupbusiness i nuovi dati relativi agli investimenti in questo specifico settore in Italia . Abbiamo chiesto alle nostre startup di raccontarci quanti investimenti hanno raccolto, quando, nell’ambito dell’arco temporale 2012 – 2016, e da che tipologia di investitore. Lo scenario che è emerso è piuttosto preoccupante.  In cinque anni sono stati investiti – considerando il campione di riferimento 74 startup fondate tra il 2012 e il 2016 – 25 milioni di euro, di questi quasi 15 milioni di euro sono stati raccolti – con grande merito – da un unico player, Musement, vera rock star della nostra Associazione e i rimanenti 10 milioni di euro distribuiti col contagocce su una 40ina di startup”.

Se il dato complessivo degli investimenti in startup resta piccolo al confronto di altre economie europee simili alla nostra, benché in crescita come illustrato dai dati dell’Osservatorio Startup Hi-Tech della School of management del Politecnico di Milano, lo spaccato sulle startup del turismo, ambito che dovrebbe essere uno di quelli sui quali maggiormente concentrare le risorse perché componente fondamentale dell’economia italiana, non va quindi meglio.

“Il dato a mio parere più preoccupante che emerge chiaramente dai numeri – prosegue Ferraris – , è che mancano quasi totalmente i round di follow-up, ovvero è abbastanza semplice raccogliere un primo seed, spesso comunque inferiore ai 50 mila euro, ma tale seed non ha solitamente alcun seguito. Questo è male sia per i piccoli investitori, che spesso credono che iniettando poche decine di migliaia di euro in una startup questo li porterà ad avere un ROI di qualche tipo, sia per i founder stessi che credono di essere sulla strada del fundraising e invece è solo un abbaglio che gli farà perdere nel migliore dei casi un paio di anni per poi chiudere o diventare un life-style business poco attraente”.

Scenario poco esaltante quindi che, anche in questo settore, mette le startup che riescono a crescere un po’ nella condizione di andare poi a cercare fondi all’estero, cosa che spesso implica anche lo spostamento dell’azienda stessa.

coda x musei vaticani
Turisti in coda a Roma per entrare ai Musei Vaticani

“Come Presidente di Ast, ho osservato in questi tre anni un grande miglioramento nella qualità delle startup che si iscrivono da noi, sia in termini di team, sia di conoscenza dell’ecosistema, sia di prodotti e revenue model associati. Purtroppo a tale miglioramento non ho visto corrispondere una crescita rilevante di capitali disponibili né una crescita – in numero e qualità – degli investitori. A peggiorare la situazione ci si mette poi il ‘sistema Italia’, fatto di annunci altisonanti di fondi per l’innovazione nel turismo, decine di milioni che però – evidentemente – se davvero sono stati erogati – non sono mai arrivati ai reali destinatari: gli imprenditori. Ritengo che forse sarebbe meglio che il governo evitasse di annunciare l’erogazione di milioni che vengono assorbiti (se mai erogati) in un qualche punto irrilevante della filiera ma magari, ed è una proposta seria, che pensasse seriamente di defiscalizzare le startup innovative, magari evitandogli di pagare quei quasi 4mila euro di INPS per ogni founder all’anno che, in una startup ‘tipo’ con tre founder, equivarrebbero alla possibilità di assumere uno sviluppatore in più o poter spendere mille euro al mese per acquisire clienti”.

Dispiace non poter raccontare una storia positiva, si rammarica Pietro Ferraris che aggiunge: “ci sono ovviamente delle success story tra i nostri associati, che però impallidiscono se paragonate agli investimenti e ai fatturati ottenuti da startup del travel nate e cresciute in ecosistemi più efficienti penso a Londra e a Berlino. Peccato però che nel nostro Paese il turismo valga quasi il 12% del Pil e, forse, maggiore attenzione e risorse andrebbero dedicate proprio all’innovazione in questo settore”.

Tutti i dati relativi all’andamento degli investimenti in start up italiane del turismo sono disponibili a questo link.

(nell’immagine di copertina, turiste giapponesi in Piazza San Marco a Venezia)

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