Scuter, in arrivo lo sharing di veicoli come non l’avete mai visto

Gianmarco Carnovale, CEO e co-fondatore di Scuter racconta a Startupbusiness la storia della startup che si prepara al suo primo lancio commerciale che avverrà a Milano a inizio novembre 2025 e che rappresenta il culmine di un’avventura imprenditoriale che ha elementi unici e che ha superato sfide considerevoli. La data ufficiale del lancio sarà comunicata il giorno 30 ottobre nel corso di una attività di marketing con la modalità del flash mob che la startup ha organizzato in diverse zone di Milano.

Gianmarco, dopo molti anni che con i tuoi co-fondatori sei al lavoro su Scuter e ne parli pubblicamente, è il caso di partire da quelle che sono le voci che mormoravano dubbi sulla realizzazione del progetto che agli occhi di molti sembrava solo una promessa che non arriva mai a meta, e mentre sviluppavate un mezzo di trasporto del tutto innovativo il mercato si stava saturato di operatori di sharing. 

Questa è forse la domanda principe per una startup come la nostra, una deeptech ingegneristica che ha trascorso molti anni a lavorare sul prodotto – un hardware mai fatto prima, da certificare e omologare per uso stradale dovendo rispondere a requisiti stringenti di sicurezza, ma anche di usabilità per gli utenti – e che ora arriva sul mercato. Te ne ringrazio e rispondo partendo da quello che potremmo definire il ‘gossip’: viviamo in un Paese in cui ci sono talmente tanti chiacchieroni e venditori di fumo, che talvolta si finisce per essere scambiati per uno di quelli, e delle altre volte si finisce sotto attacco pretestuoso per ragioni diverse da quelle che appaiono. Pazienza, io da co-fondatore e CEO ho la responsabilità verso il team e gli investitori di occuparmi di fatti concreti, e non ho tempo per gli hater. Andando ai fatti: il mercato è tutt’altro che saturo, i numeri dicono che la sharing mobility è una promessa di trasformazione non mantenuta, che al momento pesa, sommando tutte le tipologie, appena lo 0,5% della mobilità urbana europea, cioè vicino al nulla. Le città sono invase da veicoli che vengono usati occasionalmente e che sono stati lanciati a pioggia nelle strade a causa di una ubriacatura di investimenti in logica FOMO (fear of missing out – paura di perdere un’occasione, ndr) che non vedranno mai ritorni, e molte amministrazioni comunali se ne stanno accorgendo. Ma soprattutto lo sanno bene tutti gli operatori, che negli anni sono spuntati come funghi con servizi indistinguibili tra loro, privi di valore reale, e che oggi tendono a fingere raccontando di grandi successi e crescita solo perché sperano di trovare altri finanziamenti per sopravvivere, con il sogno finale di essere salvati da sovvenzioni pubbliche mentre fanno aggregazioni per poter ridurre la concorrenza e alzare i prezzi. La tesi su cui è nata Scuter, consapevoli che la nostra fosse una strada lunga e difficile, è che tutti questi soggetti avrebbero incontrato difficoltà insormontabili a causa di una strategia sbagliata, a prescindere dalla loro dotazione finanziaria, e dal mancato controllo dell’elemento centrale della value proposition quale è il veicolo. Io sono certo che la via presa dagli altri non funziona, e sono fiducioso che quella presa da noi sia quella giusta. Adesso lo verificheremo sul campo, è arrivato il momento di togliersi il dubbio.

E quindi finalmente state per lanciare a Milano, con una flotta di 200 veicoli. Perché avete scelto proprio Milano, e cosa vi differenzia dunque da tutti i competitor consolidati?

Milano è stata una scelta strategica, sia per densità abitativa sia per professionalità dell’amministrazione municipale, oltre che di consistenza del problema che affrontiamo: l’eliminazione dell’auto di proprietà dall’equazione della mobilità urbana. In Europa, Milano si colloca tra le prime tre città per domanda di mobilità condivisa e per ricerca di soluzioni alternative all’auto, e quindi è il laboratorio all’aperto perfetto per raccogliere metriche di gradimento di una innovazione come la nostra. La nostra differenza con gli operatori esistenti, come anticipavo prima, è fin dal DNA: gli altri sono quasi tutti degli acquirenti di mezzi a scaffale, adattati allo sharing ed integrati con software talvolta sviluppato in casa e più spesso preso in licenza. Noi abbiamo scelto di essere altro: una tech company che affronta un problema realizzando la tecnologia necessaria, e tecnologia significa soprattutto il veicolo. Noi siamo un produttore automotive, oltre a una società software, con la peculiarità di essere il primo produttore al mondo che non prevede di vendere veicoli ma di abilitare la maggior efficienza possibile nella mobilità individuale in ambito urbano. Inoltre, il nostro modello di business principale non sarà quello di fare l’operatore di sharing: lanciamo a Milano in questa modalità, ma va vista come l’apertura del flagship di una rete di città dove apriremo attraverso licenze. In futuro potremo ancora aprire altre città direttamente, ma la nostra strada privilegiata è quella di fare accordi di licenza verso comuni e municipalizzate, società utility, imprese di trasporti e logistica, comunità locali, che operino le flotte localmente mentre noi gestiremo la piattaforma che le riunisce e federa in modo trasparente per gli utenti. 

Parliamo del veicolo, tre ruote, cabinato, essenziale e resistente è una scommessa. Come siete arrivati a questa configurazione e quali sono state le sfide tecniche maggiori?

Il concept è nato dall’analisi dei pain point reali: abbiamo analizzato quelli degli utenti, quelli delle amministrazioni comunali, quelli degli operatori di sharing, in un gruppo di lavoro che costituimmo su richiesta della divisione di innovazione di Enel ai tempi dell’avvio del fenomeno dello sharing, e concludemmo che non si poteva fare sharing mobility in modo efficace senza un veicolo realizzato ad hoc, con caratteristiche non presenti nei veicoli consumer di cui si stavano dotando gli operatori. Enel ci ringraziò per l’analisi e, dopo aver parlato con dei produttori automotive per valutare l’ipotesi di commissionare un veicolo speciale, concluse che richiedeva un budget indefinito e soprattutto troppo tempo per potersene occupare, ma ci incoraggiò ad esplorare il percorso costituendo una startup. Noi cofounder, che univamo tutte le competenze per provarci, decidemmo di andare avanti parlando con centinaia di persone, raccogliendo dati oggettivi, e man mano ipotizzando caratteristiche che risolvessero i problemi evidenti: il maltempo ferma la maggior parte degli utilizzatori della micromobilità, molti guidatori non si sentono sicuri su uno scooter nel traffico, i pendolari vogliono arrivare a destinazione presentabili e non fradici o spettinati per il casco, la condivisione del casco è repellente anche con le cuffie usa e getta, le auto soffrono il traffico e la carenza di parcheggi, i monopattini sono pericolosi, le bici richiedono una lunga trasformazione urbana per realizzare molte ciclabili che comunque non sostituiscono la mobilità basata su auto per il raggio breve e l’assenza di capacità di carico. Tutte le categorie di veicolo esistenti, inoltre, essendo realizzate per essere vendute ad utenza privata soffrivano di vulnerabilità a usura e atti vandalici, e di cannibalizzazione di parti per ricambi. Alla fine tracciammo le caratteristiche necessarie a risolvere le varie problematiche, ma la sfida ingegneristica per attuarle è stata enorme. Dovevamo mantenere l’agilità di uno scooter, fondamentale nel traffico e per parcheggiare, garantendo stabilità, sicurezza, autonomia e soprattutto facilità d’uso intorno a un tipo di mezzo mai realizzato: un motociclo con aspetti di sicurezza e confort simili a una citycar, con semplicità d’uso e costo di manutenzione di una bici, basato su batterie sostituibili per garantire continuità d’uso senza soste per la ricarica in colonnina, robusto e resistente e omologabile per la guida senza casco come era riuscita a fare solo BMW prima di noi. Ci sono voluti 10 anni impiegati in cinque cicli di progettazione, test, fallimenti e riprogettazioni in piena logica lean, anche con un paio di soste forzate a causa della cassa terminata, che ci hanno fatto apprendere e crescere. Lo sviluppo della soluzione è quasi tutto lavoro italiano: sviluppo software e integrazione di componenti in licenza a Roma, progettazione meccanica a Caserta, produzione a Casoli in provincia di Chieti nel distretto industriale d’eccellenza per motocicli con il partner IAT, e subfornitori tra Abruzzo, Campania, Lazio, Marche ed Emilia Romagna, oltre alla componente del powertrain che è asiatica. Abbiamo depositato e ottenuto anche due brevetti sull’architettura meccanica che abbiamo inventato per l’avantreno sterzante e basculante, che è stata fondamentale per poter realizzare un mezzo a tre ruote. 

Quali sono i prossimi passi dopo Milano? Altre città italiane? 

Milano è uno dei migliori mercati europei per lo sharing, nonché il nostro focus su cui siamo concentrati per dimostrare che possiamo soddisfare utenti mai passati allo sharing con una soluzione più conveniente ed efficiente delle altre, e producendo unit economics profittevoli. Per ora pensiamo solo a questo perimetro per far girare il servizio al meglio, anche apprendendo tutte le cose che ancora non conosciamo e che ci serviranno in seguito per scalare. La fase successiva dipenderà da diversi fattori, tra Italia ed Europa ci sono almeno un centinaio di località interessanti ma l’ambizione su cui abbiamo costruito il progetto è globale, e definiremo i passi di replicazione e di scaling con i nostri investitori. La cosa più importante da tenere presente, comunque, è che molto dello sviluppo sarà anche basato sulle migliori opportunità che troveremo nell’accordarci con licenziatari locali.

Hai citato gli investitori. Com’è stata la raccolta fondi e quali sono stati i momenti più difficili di questi anni?

La raccolta è stata, direi, educativa. All’inizio è stata più facile di quanto pensassi: un friend e family, un grant europeo, l’equity crowdfunding, premi e riconoscimenti, sono arrivati in rapida successione e dovevamo lanciare già nel 2019, quando stavamo finalizzando la quarta generazione del mezzo e una grande azienda era soft committed per investire portandoci sul mercato. Poi quell’investimento è saltato all’ultimo momento per una riorganizzazione aziendale dell’investitore, e ci siamo trovati a dover costruire una nuova strategia finanziaria complessa: abbiamo capito che in quegli anni nessun investitore estero avrebbe sottoscritto un round seed su una startup italiana basata su hardware, e allo stesso tempo nessuno dei pochissimi fondi seed italiani avrebbe sostenuto tutto il rischio da solo, peraltro in un momento in cui tutti sembravano impazziti dietro ai monopattini, che per noi era chiaro che non avrebbero mai potuto avere successo. Non volendo trasferirci in altre nazioni, a quel punto abbiamo deciso di costruire un percorso blended con tre fonti di finanziamento, partendo dall’unire la partecipazione a Smart&Start di Invitalia con una domanda di finanziamento bancario per la flotta supportati in questo aspetto da Banca Intesa Sanpaolo che attraverso la filiale Corporate di Caserta ci ha sostenuto con l’asset financing per la produzione, e un’ultima componente di capitale, aprendo un SAFE. Se una sola delle tre fonti non fosse andata in porto, non avremmo avuto modo di proseguire. Ma con molto impegno riuscimmo ad ottenerle tutte e tre, attraverso un lavoro durato un anno. Sembrava fatta, avevamo i fondi per fare industrializzazione, omologazione, produzione della prima flotta, ingresso sul mercato, ma a quel punto arrivarono in sequenza: pandemia con lungo blocco delle navi portacontainer che dovevano trasportare i componenti asiatici acquistati, guerra sul fronte Ucraino dove si produce l’alluminio, e perfino un disguido burocratico con INPS che aveva attribuito per errore alla sede di Roma i dipendenti di Caserta, e che fece congelare per incongruità i fondi Invitalia per il tempo che ci volle per rettificare lo sbaglio: quasi un anno. A quel punto, andando così lunghi, la cassa non bastava più al lancio commerciale e, mentre facevamo dei piccoli test pilota, abbiamo dovuto riaprire sia la componente del SAFE precedente con una estensione, che contrattare altra finanza a debito con la banca. Ci ha salvato la persistenza, la cura maniacale nel tenere bassi i costi e alta la capital efficiency, l’affrontare caparbiamente ogni problema tecnico incontrato trasformandolo in apprendimento, la trasparenza con tutti i nostri finanziatori sui fattori di rallentamento esogeni indipendenti da nostra volontà, e perfino le ammissioni sugli errori commessi. Alla fine, abbiamo costruito una base solida di investitori e finanziatori che hanno sempre avuto chiaro un fatto fondamentale: noi eravamo là a fare il possibile e l’impossibile per tutelare il valore del loro investimento, e a meritarci la loro fiducia. Questo ha fatto sì che tutti i nostri soci non siano stati solo portatori di capitale, ma anche advisor, evangelist, connettori, e infine amici. Oggi stiamo parallelamente chiudendo l’extension ma anche già ragionando del futuro serie A, per il quale abbiamo diversi fondi in finestra che hanno compreso e condividono la nostra value proposition, raccolgono l’entusiasmo degli utilizzatori che hanno testato il mezzo, e attendono solo di vedere le metriche del servizio di mobilità su scala cittadina.  

Fra cinque anni, come immagini Scuter? 

Noi siamo una società tech, il cuore della nostra attività è e rimarrà la gestione della piattaforma, affiancata dallo sviluppo continuo tanto del software che del veicolo e di sue componenti per mantenere il vantaggio tecnologico sui molti che ci hanno a più riprese approcciato, delle volte chiedendo di vendere i mezzi, delle altre proponendosi di comprare direttamente tutta la società. Abbiamo gentilmente declinato con tutti, dato che stiamo perseguendo una visione trasformativa profonda e molto ambiziosa, realizzando quella che per noi è una infrastruttura climatetech con una road map tecnologica che oltre a far spostare individui nel modo più efficiente possibile guarda anche a decarbonizzazione, gestione dell’energia, monitoraggio, e perfino al dual-use, per gli ambienti urbani. Oggi le nostre tecnologie abilitanti sono un mezzo elettrico integrato con IoT, un cloud SaaS e una app. Nel nostro prossimo futuro impiegheremo molte altre tecnologie come sensoristica avanzata, accumuli energetici, blockchain, machine learning, e autonomous parking. Ti direi che ci vediamo avviati in direzione di diventare l’abilitatore tecnologico e il federatore di una organizzazione decentralizzata, fatta di molti partner, che genera, trasforma e distribuisce valore in tutte le grandi e medie città del mondo, dalle cui strade vogliamo rimuovere le automobili di proprietà. Ma da ora ad allora possono succedere tante di quelle cose che questa è, per ora, solo la destinazione ideale di un viaggio ancora lungo, mentre in realtà ci occupiamo principalmente di fare al meglio il prossimo passo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

    Iscriviti alla newsletter