Digital transformation, gli errori della politica secondo Floridi

Il filosofo ritiene la politica ancora incapace di capire profondamente la digital transformation e come essa può portare l’umanità ad una nuova fase

Pubblicato il 28 Feb 2018

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C’è una certa incapacità dei nostri politici, non solo italiani, di comprendere le novità che si accompagnano alla trasformazione digitale. Non se ne colgono le profondità. E così perdono – perdiamo noi tutti – una possibilità di facilitare la soluzione alle grandi sfide del nostro tempo.

Il grande tema della politica digitale non può essere trattato come un extra. Come un’appendice ad altri temi.

Liquidabile dalla politica con un “abbiamo aperto la pagina Facebook, facciamo le consultazioni via mail”.

Vedo questo approccio anche in Gran Bretagna, in Francia. È un trascurare o un travisare la realtà: ne deriva un gran pasticcio.

I due grandi errori politici nel digitale

Chi trascura il digitale è cieco alla realtà di oggi. Chi lo travisa, riduce la trasformazione digitale a un fatto di mera comunicazione. Sarebbe meglio non averlo capito piuttosto che trattarlo o comprenderlo a metà. Ossia trattare il digitale in politica con strumenti vecchi, che vanno da Gutenberg a McLuhan.

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In Italia ci sono politici che parlano di economia senza parlare di economia digitale. Di lavoro senza lavoro digitale. Questo significa trascurare il fenomeno.

Se lo travisano invece parlano di internet come qualcosa che si aggiunge alla televisione.

In politica – a seconda che la forza sia conservatrice o progressista – si passa quindi da chi del tutto ignora il fenomeno a chi lo travisa, senza passare dall’averlo capito.

Che cosa non ha capito la politica nel digitale

E da capire c’è che lo spazio in cui viviamo ora è uno spazio digitale. Il digitale sta plasmando l’ambiente in cui viviamo. Non è più solo una dimensione della comunicazione.

Chi lo costruisce fa la politica di quello spazio. Ma in questo spazio la politica non c’è. Lo stato è assente. È solo uno spazio aziendale, commerciale (e su questo non uso un’accezione negativa).

Questo significa che l’Italia si ritroverà con un governo, qualunque sia, che non avrà colto una delle più grandi sfide del 21esimo secolo. Ossia quale sarà il design di una società matura in questo contesto, che è intriso di digitale.

È un errore parlare del digitale mettendolo sullo stesso piano delle altre sfide, come il global warming e la diseguaglianza economica. Questo perché risolvendo la sfida del digitale riusciremmo a semplificare tutte le altre sfide. Per esempio: l’ineguaglianza sociale. Andrebbe meglio se riuscissimo a distribuire in modo più equo i vantaggi del digitale. Oppure: è impensabile pensare di risolvere le questioni dell’educazione senza affrontare la sfida del digitale.

Ancora: qui in Gran Bretagna, con la Brexit, si parla molto della questione della nuova frontiera da costituire in Irlanda. E si discute della possibilità di farlo con il digitale (geolocalizzazione, videocamere intelligenti, etc.). Ma nessun politico ha pensato a come affrontare il derivante problema della gestione dei dati. Va fatto oggi, non rimandato. Nel digitale si potrebbe trovare una soluzione intelligente a un problema da 21esimo secolo, che in passato avremmo affrontato solo con muri fisici e filo spinato.

Perché capire il digitale aiuta la politica a migliorare la società

In altre parole, più filosofiche: in via trascendentale, i politici dovrebbero capire che c’è una gerarchia nel modo in cui arrivano queste sfide. Non parlo di gradi di gravità ma di concatenazione delle soluzioni. Se risaliamo alla condizione di soluzione dei problemi, troviamo all’origine il digitale. Non voglio caricare il digitale del ruolo di panacea di tutti i mali. Ma bisogna vederlo come una strada maestra da imboccare per rendere molte altre difficoltà più facili da gestire e da risolvere.

Si pensi al capitalismo. Lo abbiamo sempre associato al consumismo, ma non è detto che debba essere ancora così. Il capitalismo è basato sul diritto alla proprietà, sulle regole di mercato, sulla competizione, sulla ricerca del profitto. Funziona molto bene nel creare ricchezza, ma molto male nel farlo in modo equo e sostenibile. Una nuova via è associare il capitalismo all’economia verde (sostenibile) e blu (digitale). Economia dell’esperienza, della sharing economy. Dove il valore non è più nel produrre/consumare cose. Ma è nella qualità della vita.

Da un’economia basata sul consumo di cose possiamo passare a un’economia dei servizi, del benessere, dell’esperienza.

Si tratta di entrare in una nuova fase dell’umanità. Una in cui si prenda consapevolezza dell’impossibilità di continuare a sfruttare il pianeta e riempirlo di oggetti.

Il digitale permette di approcciare meglio la possibilità di sganciare il capitalismo dal consumismo. Perché crea la precondizione di un’economia che funziona molto meglio per il ventunesimo secolo.

Ma tutto questo mi sembra del tutto assente nel dibattito politico attuale.

di Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione, University of Oxford e Direttore del Digital Ethics Lab dell’Oxford Internet Institute – originariamente pubblicato su Agenda Digitale

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