economia

Ecco come i CEO fanno fronte a inflazione e recessione

Alcuni accorgimenti per fronteggiare l’inflazione e recessione ci sono già: investimenti in innovazione, smart working, M&A e joint venture

Pubblicato il 19 Ott 2022

In questi ultimi due anni il mondo ha affrontato diverse crisi che si stanno ripercuotendo nel mondo del lavoro: crisi pandemica, guerra in Ucraina, inflazione, crisi energetica. Crisi che porteranno il nostro Paese a una eventuale recessione, come confermato qualche giorno fa dal Fondo Monetario Internazionale (FMI): “Si prevede che la crescita globale rallenti dal 6,0% nel 2021 al 3,2% nel 2022 e al 2,7% nel 2023”. E ancora: “L’inflazione globale dovrebbe aumentare dal 4,7% nel 2021 all’8,8% nel 2022”. Petya Koeva Brooks, vice capo economista FMI ha dichiarato: «ci attendiamo la recessione tecnica in Italia nei prossimi trimestri soprattutto per l’impatto della crisi energetica, per l’alta inflazione e del calo dei redditi».

Sulla crisi energetica e risparmio energetico ne avevamo già parlato in questo articolo, indicando una strada negli investimenti innovativi, da parte sia delle istituzioni che aziende.

Altro spauracchio è però l’inflazione. Secondo l’ultimo EY CEO Outlook Pulse, il 94% dei CEO intervistati ritiene che l’inflazione avrà un impatto negativo sulla performance finanziaria e sulla crescita della propria azienda.

  • Le tensioni geopolitiche spingono il 93% delle aziende italiane a rivedere i propri piani strategici d’investimento e il 94% dei CEO è preoccupato per l’impatto negativo che l’inflazione avrà sulle prospettive di crescita della propria azienda
  • Nonostante questo, il 66% dei CEO intende incrementare il capitale investito per mitigare i rischi e continuare a trasformare il business
  • Nei primi 9 mesi del 2022, con 627 transazioni per un valore aggregato di 46,6 miliardi di euro, l’M&A in Italia ha mantenuto un ritmo sostenuto

Ma prima di arrivare ad attuare operazioni finanziarie legate al business o all’exit strategy, si possono applicare pratiche e misure più veloci e meno sconvolgenti in termini di assetto societario e business, come, per alcune aziende, sicuramente lo smart working, o meglio, remote working. Lo smart working infatti può essere una misura favorevole per le aziende in merito alla crisi energetica e risparmio energetico legati all’aumento dell’inflazione, che a settembre secondo l’ISTAT “pur rallentando di poco, continuano a crescere in misura molto ampia, i prezzi dei beni energetici (da +44,9% di agosto a +44,5%) sia regolamentati (da +47,9% a + 47,7%) sia non regolamentati (da +41,6% a +41,2%). I CEO delle aziende possono così fronteggiare la crisi energetica con la misura dello smart working, integrandolo, per chi non lo avesse ancora attuato, o ampliandolo. Ci sarebbe sempre però da capire a chi convenga, se solo al datore di lavoro o anche ai dipendenti. Ecco, diversi studi hanno provato ad analizzare il dato da entrambi i punti di vista.

Nel Rapporto Attualità e prospettive dello smart working dettagliato nel convegno dell’INAPP tenutosi a settembre, il 55,3% dei lavoratori ha dichiarato che lo smart working aumenta i costi fissi (spese per internet, luce, gas ecc.).

D’altro canto gli ultimi aspetti ritenuti vantaggiosi da oltre la metà dei datori di lavoro smart sono il potenziale aumento del risparmio dei costi di gestione degli spazi fisici (65,8%) e l’effetto che può avere in termini di riduzione dell’assenteismo (64,6%).

Più in generale, per tutte le aziende italiane rappresenterà “una soluzione per i problemi connessi all’elevato costo dell’energia”. In prospettiva si tratta di un fenomeno “destinato a riscrivere la geografia urbana dei nostri territori” – ha affermato il presidente dell’INAPP Sebastiano Fadda.

Da un recente studio di IWG, The IWG CFO Survey 2022: Cost cutting prioritised as recession looms, uscito nei primi giorni di ottobre e che sta rimbalzando come una pallina da flipper nei canali d’informazione, l’80% dei CFO che hanno partecipato alla loro survey ha dichiarato che “la riduzione dei costi è già una priorità” e che “il lavoro ibrido sia una soluzione”.

Secondo l’articolo, il lavoro ibrido potrebbe comportare un abbattimento dei costi per i datori di lavoro di circa 11mila dollari all’anno per dipendente. A dar maggior conforto allo studio ne viene citato un altro, quello di una ricerca statunitense condotta dal fornitore di software per l’ambiente di lavoro Robin, a conferma che “l’83% dei dirigenti si aspetta che il lavoro ibrido sia un risparmio sui costi e il 60% prevede di ridurre lo spazio in ufficio di proprietà del 50% o più”. Non bastando, IWG prosegue aggiungendo il dato dell’azienda tecnologica globale Cisco che, passando all’ibrido cinque anni fa, è riuscita a tagliare il 50% del suo patrimonio immobiliare, risparmiando così circa 500 milioni di dollari.

Ora, IWG è un gruppo societario che ha come business l’offerta di spazi di lavoro condivisibili, ovvero co-working. E secondo il loro studio anche i dipendenti ne tratterebbero vantaggio economico: Il 53% dei CFO intervistati ritiene che i propri dipendenti preferiscano il lavoro ibrido e l’87% è d’accordo sul fatto che offra ai dipendenti uno stile di vita più conveniente in un contesto di crisi del costo della vita. Ciò è confermato dai dati, che suggeriscono che i lavoratori potrebbero risparmiare 328 sterline al mese sul pendolarismo in treno e 128 sterline al mese in auto. Non sorprende, quindi, che la ricerca dimostri che il 77% dei dipendenti afferma che un ufficio vicino a casa è un requisito indispensabile per il loro prossimo lavoro”.

Ovvio che per i dipendenti la cui sede di lavoro è distante dalla loro abitazione, lo smart working possa essere uno strumento efficace contro l’aumento dei costi dell’energia. Ma questi corrispondono solamente ad una fascia. Come anche le aziende che a oggi possono permettersi di mettere in modalità di lavoro agile il proprio staff.

Secondo il report di Osservatori.net del Politecnico di Milano “per l’81% delle grandi imprese, il 53% delle PMI e il 67% delle PA il lavoro da remoto fa parte di un modello di smart working strutturato o informale, e nell’89% delle grandi imprese, nel 35% delle PMI e nel 62% delle PA, lo smart working rimarrà o diventerà, al termine dell’emergenza, una pratica presente nell’organizzazione”.

Quanto costerà lavorare in smart working ha provato ad analizzarlo Selectra, startup francese che nel 2015 è sbarcata a Roma come Selectra Italia dall’intuizione dei co-founder Niccolò Carlieri e Antoine Arel. Secondo un’analisi condotta da Selectra a febbraio 2022, uno smart worker full time, arriva a spendere fino a 57 euro in più al mese nella bolletta luce e 158 euro per quella del gas, rispetto allo stesso periodo del 2021.

Riprendendo lo studio di Ernst & Young “il 42% degli intervistati sta riconfigurando le catene di approvvigionamento, il 38% sta posticipando i propri investimenti, il 34% sta trasferendo le proprie attività operative; il 28% sta uscendo da specifiche aree di attività in determinati mercati e il 26% ha bloccato un investimento pianificato”.

Secondo Massimo Antonelli, CEO EY Italy e chief operating officer EY Europe West, “nei prossimi 12 mesi, i CEO italiani aumenteranno gli investimenti di capitale nel digitale e nella tecnologia (82%), in ricerca e innovazione (74%) e in talento e formazione (56%). Mettere i fattori ESG al centro di tutti i prodotti e servizi (44%) e utilizzare la tecnologia per ottimizzare la suite di prodotti e servizi (40%) sono le due aree sulle quali le aziende italiane faranno leva per coinvolgere e fidelizzare i clienti”.

Altro dato interessante riguarda la percentuale di CEO intervistati che oltre ad acquisizioni e dismissioni, pianifica una joint venture (JV) o un’alleanza strategica (il 58%).

Sicuramente tali accorgimenti variano dal settore di appartenenza e dal business che l’azienda opera, così come il tipo di forma societaria e la realtà aziendale, che si tratti di una startup, PMI o Corporate. Sta di fatto però che si tratta di accorgimenti non istituzionali, ma presi e adottati dagli stessi imprenditori. Il bisogno che sta emergendo, e che già a luglio aveva confermato la ricerca di ISPOS riguarda il supporto del Governo, attraverso misure e manovre finanziarie a sostegno delle aziende: il 68% degli italiani considera il supporto del Governo il principale fattore nel determinare il successo di una nuova iniziativa imprenditoriale, percentuale molto più alta rispetto alla media internazionale del 56%. Al tempo stesso, però, soltanto il 30% dei rispondenti ritiene che il Governo del proprio Paese stia facendo un buon lavoro nel promuovere l’imprenditorialità e assistere attivamente gli imprenditori, percentuale che si abbassa al 19% in Italia.  Subito dopo si posizionano i tassi d’interesse: il 47% degli italiani li ritiene un fattore di successo, una percentuale leggermente più bassa rispetto alla media internazionale del 50%. Infine, soltanto il 26% degli italiani-la quota più bassa tra tutti i Paesi esaminati- considera l’inflazione un fattore determinante per il successo di un’iniziativa imprenditoriale. Nel resto dei Paesi la media è pari al 40%. (Photo by Avi Richards on Unsplash )

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