Investire nel capitale umano per ricomprarci il futuro

L’Italia investe poco in ricerca e sviluppo. Il nuovo Governo deve prevedere un piano straordinario e due punti di PIL per ridare competitività al Paese

Pubblicato il 28 Feb 2018

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Ogni anno, verso la fine di luglio, in un paesino della Calabria che si chiama Gagliato, si svolge, per volontà del professore Mauro Ferrari dello Houston Methodist Research Institute, una conferenza internazionale chiamata Nanogagliato, dedicata all’applicazione delle nanotecnologie nella pratica diagnostica e terapeutica. Intorno alla conferenza si sviluppa, ad opera di Paola Ferrari, la Piccola Accademia di Gagliato delle Nanoscienze, che coinvolge tutti i bambini e ragazzi dai 5 ai 14 anni che vivono a Gagliato e nei paesi limitrofi, dando loro l’opportunità di incontrare i ricercatori, capire le nanotecnologie, ed esserne affascinati.

Perché in Italia non ci sono cento, mille Piccole Accademie come quelle di Gagliato, non importa se autoctone o importate dall’estero? Ma, più in generale, perché abbiamo così poca consapevolezza dell’importanza della ricerca scientifica e tecnologica per una società che voglia non solo sopravvivere, ma anche prosperare?

Non sorprende nessuno che la campagna elettorale di questi giorni sia stata piena di quel disprezzo, o nel migliore dei casi di quell’indifferenza, per la conoscenza scientifica e tecnologica che connotano ormai da tempo il nostro dibattito pubblico: siamo i nipotini degeneri del premio Nobel Giulio Natta, che si rivolterebbe nella tomba se ci vedesse oggi.

L’ITALIA INVESTE POCO IN RICERCA E SVILUPPO

In Italia, a livello complessivo tra pubblico e privato, investiamo troppo poco in ricerca e sviluppo; e da questa storica lacuna deriva il nostro ormai ventennale gap di produttività. Poiché la produttività ristagna (o retrocede), il Paese non cresce, accumula debito pubblico (con 70 miliardi l’anno di interessi) e debito privato, va ogni anno a raschiare il fondo del barile solo per continuare a galleggiare, e non investe in ricerca e sviluppo: e così si perpetua il circolo vizioso di un Paese a bassa produttività e scarsa innovazione.

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Qualche numero: secondo l’OCSE, nel 2015 in Italia si investiva in ricerca e sviluppo l’1.33% del PIL, contro una media OCSE del 2.38%. Secondo Roberto Cingolani (IIT), in Italia mancano 30.000 ricercatori.

Tutto ciò ha le sue radici, a mio parere, in una crisi dell’istruzione scientifica e tecnologica; e questa è sfociata in una crisi del capitale umano che dovrebbe essere il principale ingrediente per costruire la nostra economia del futuro.

UN PIANO STRAORDINARIO PER LA SCIENZA E LA TECNOLOGIA

Chi formerà il nuovo Governo dovrebbe a mio parere ambire a guidare un progetto quasi inimmaginabile dai politici tra cui ci troviamo a scegliere, perché darebbe i suoi maggiori frutti ben oltre l’orizzonte dei cinque anni: un piano straordinario per la scienza e la tecnologia.

Il piano dovrebbe lavorare su due livelli di cultura scientifica e tecnologica. Il primo, quello avanzato, degli scienziati e dei ricercatori, prevederebbe il potenziamento dell’Istituto Italiano di Tecnologia a Genova, il rafforzamento del progetto milanese dello Human Technopole, e il lancio di 1-2 altri grandi poli al massimo, ad esempio modellati sul Vector Institute for Artificial Intelligence di Toronto, in modo tale da poter attrarre dall’estero molti più ricercatori eccellenti di quelli che arrivano oggi. Il piano costruirebbe poi ponti d’oro per le imprese italiane e le multinazionali che creassero o facessero crescere i loro centri di ricerca e sviluppo in Italia (pensiamo alla farmaceutica: quanta ricerca abbiamo perso negli ultimi 20 anni, perché altri Paesi proponevano ambienti meno ostili?) e si spingerebbe fino all’”ultimo miglio” della ricerca applicata, per esempio dando finalmente delle vere risorse all’anello mancante del Piano Industria 4.0, quello dei Centri di competenza (per i quali è di recente partito un primo bando) e forse anche dei Digital Innovation Hub sul territorio, di cui si sono perse le tracce. Il piano spingerebbe all’aggregazione tra molti degli incubatori d’impresa legati alle facoltà scientifiche, potenzierebbe 3-4 dei poli risultanti (magari dove è più probabile il dialogo con la grande industria), e farebbe in modo che alcuni dei ricercatori delle università italiane – senza che i professori mettano loro i bastoni fra le ruote – vedano maggior gloria nell’usare i loro risultati di ricerca applicata per fondare una startup ad alta tecnologia che dà lavoro ad altri 200 laureati e dopo qualche anno si quota in Borsa, che non nell’inseguire pubblicazioni e citazioni senza mai portare l’innovazione al mercato.

Il secondo filone d’intervento, quello ampio, di base, dovrebbe rafforzare in tutti gli italiani – dagli studenti e insegnanti della scuola dell’obbligo fino ai baby boomer ormai prossimi alla pensione – le “competenze della vita” che permettono a tutti la comprensione dei cambiamenti che scienza e tecnologia stanno portando nella nostra società. L’obiettivo deve essere una società in cui chiunque, che sia insegnante o medico o infermiere o avvocato o giudice o giornalista o operaio, sappia applicare qualche elemento di logica, le basi del pensiero computazionale, e qualche nozione di probabilità e statistica, come il teorema di Bayes. La scuola pubblica, le università e la formazione continua dovrebbero avere le risorse per fare un grande lavoro di outreach culturale; rendere divertenti per i più piccoli la matematica e le materie scientifiche; decuplicare i campi estivi per le STEM portati avanti dal Dipartimento per le pari opportunità; stanare i NEET con una proposta formativa che dimezzi il gap che ci separa dalla Germania negli istituti professionali; attirare nuovi insegnanti di materie scientifiche (anche dall’estero) per migliorare le competenze degli insegnanti meno aggiornati e per avviare un reskilling della popolazione dai 18 ai 65 anni con grandi iniziative pubbliche. La misurazione dei risultati per il rifinanziamento delle iniziative dovrebbe essere rigorosa e prenderebbe spunto dalle metodologie dell’impact investing.

Il piano incentiverebbe le agenzie per il lavoro a farsi carico dell’alfabetizzazione scientifica di base di coloro che si affidano a loro; imporrebbe che anche nelle facoltà umanistiche sia d’obbligo superare almeno un esame scientifico di base (e viceversa); gli Ordini professionali, se vogliono dimostrare di avere un senso, potrebbero offrire qualche credito formativo in meno per le questioni di lana caprina e qualcuno in più per la comprensione delle dinamiche tecnologiche del secolo in cui viviamo. Una piccola percentuale delle risorse destinate a questo filone sarebbe sufficiente a moltiplicare la diffusione sul territorio delle iniziative di coding per i più piccoli che già esistono, quali ad esempio CoderDojo, Codemotion Kids e Mastercoder. Soprattutto, il piano dovrebbe dare attuazione concreta, per la prima volta nella storia repubblicana, all’art. 34 della nostra Costituzione, che dice: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”

COME FINANZIARE IL PIANO STRAORDINARIO

Come finanziare tutto questo? Qualsiasi Paese che sia nelle condizioni dell’Italia ha l’obbligo morale di esaminare in grande profondità i suoi conti pubblici per poter fermare o invertire la dinamica del debito pubblico, investire nella ricerca scientifica e tecnologica e ricomprarci il futuro.

Portiamo a compimento una seria spending review: non c’è nulla da inventare, poiché nei cassetti ne giace più d’una, e a tutte finora è mancata la volontà politica necessaria per darvi piena attuazione. Il Governo che vorrei deve riuscire a finanziare un piano rivoluzionario, che valga circa 2 punti percentuali di PIL, con 1 punto destinato alla ricerca universitaria e postuniversitaria, e 1 punto al grande programma di public education sulle conoscenze scientifiche e tecnologiche di base di cui ogni cittadino ha bisogno per far parte della società in maniera informata. E se davvero una spending review non fosse sufficiente, di fronte all’importanza dell’obiettivo non dovrebbero essere tabù per nessuno né un ripensamento del perimetro delle attività dello Stato, né – se anche questo non bastasse; ma deve bastare – la previsione, magari per un quinquennio, di un’addizionale o imposta ad hoc.

NON OCCORRONO SOLO PIÙ SCIENZIATI E INGEGNERI

Naturalmente non ci occorrono solo più scienziati e più ingegneri. Le competenze che servono nella società di oggi spaziano dal diritto applicato ai robot all’etica della tecnologia. Tutto questo è necessario perché si possano porre le basi di una società migliore, non una più iniqua o dove la mobilità sociale è ancora più difficile di quanto già lo sia oggi. Per esempio, è dimostrato che l’intelligenza artificiale può ulteriormente radicare i pregiudizi di genere e di etnia anziché contribuire a smantellarli: abbiamo bisogno di un serio dialogo su questi temi, e molte più donne e più minoranze dovrebbero dotarsi delle competenze per partecipare a questa rivoluzione. Il piano, quindi, deve essere disegnato per favorire l’inclusione.

Il mondo non deve essere privato del talento e del genio italiano. Una Piccola Accademia delle Nanoscienze non fa primavera: ma un programma ambizioso, rigoroso e massiccio può far ripartire la ricerca e lo sviluppo in questo Paese, motori dell’innovazione, della conoscenza e della crescita.

di Paola Bonomo, Non Executive Director e Business Angel – originariamente pubblicato da EconomyUp

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