Perchè in Italia non si investe in startup? Rispondono 8 VC

Pubblicato il 22 Apr 2016

E’ la domanda che serpeggia sempre, più o meno palesemente, nell’ambiente delle startup e che rimane sempre insoddisfatta. Abbiamo provato a mettere insieme alcune delle ragioni, rivolgendo agli investitori questa domanda:

“Perchè in Italia ci sono pochi soldi per le startup? Manca la cultura, mancano i capitali, mancano le buone startup?”

Ecco la risposta dei primi 8 investitori, tra i più conosciuti e autorevoli in Italia, che hanno prontamente risposto alla nostra (prima e non ultima) AMA session (Ask Me Anything), che coinvolgerà anche i nostri lettori.

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Diana Saraceni – Panakes

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<<Le startup promettenti in Italia non mancano, siamo un paese ricco di eccellenze nel settore delle tecnologie e della ricerca scientifica, che riescono a raggiungere grandi risultati nonostante dispongano di fondi e risorse minori rispetto a paesi simili. Quello che ancora è carente è la struttura a supporto di queste imprese: incubatori e fondi d’investimento seed sono ancora troppo pochi, a mio avviso, così come fondi Venture con capacità d’investimento significative, in grado di andare sopra i 10 milioni di euro d’investimento per ogni investimento target.>>

Diana Saraceni – Co-founder e general Manager di Panakes Partners. Diana ha contribuito a fondare (e vi ha lavorato per oltre 10 anni) 360 Capital Partners. In precedenza, ha forgiato la sua esperienza lavorativa in grandi banche d’investimento e M&A.

Nicola Redi – Vertis 

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<<Il venture capital italiano è molto recente e non ha ancora potuto provare la sua capacità di generare valore. Pertanto gli investitori istituzionali (quali fondi pensione, assicurazioni) non lo considerano fra gli impieghi più interessanti dei loro capitali. D’altra parte, per provare la generazione di valore, occorre un tessuto industriale disponibile ad effettuare acquisizioni ripagando così l’investimento dei fondi: salvo casi rarissimi, le imprese italiane hanno una limitata propensione ad investire in acquisizioni di startup ad alto contenuto di innovazione. Quando lo fanno, poi, le loro offerte sono frequentemente con valori di un ordine di grandezza inferiore rispetto a quelli di imprese straniere. La mancanza di un tessuto industriale disponibile ad investire per innovare provoca da un lato che i fondi italiani guardino all’estero per i loro disinvestimenti (una sorta di “fuga delle startup”), dall’altro limita la capacità delle startup di svilupparsi sotto il profilo industriale. Nel resto del mondo, circa un terzo degli investimenti di venture capital viene proprio dai gruppi industriali (i cosiddetti corporate venture capital) che affiancano i venture capital indipendenti e offrono opportunità di sinergie industriali con le startup. Inoltre molti gruppi industriali sono fra i sottoscrittori principali di fondi indipendenti, ciascuno nel proprio settore, in quanto questo rappresenta per loro un’opportunità di individuare nuove tecnologie e potenzialmente acquisirle. Trasformano di fatto i costi di scouting tecnologico in un investimento. In Italia vedo eccellente ricerca e ottime opportunità di investimento: la maggiore partecipazione delle industrie in questo processo darebbe ulteriore impulso alla creazione di valore per i fondi, al rafforzamento del tessuto imprenditoriale italiano e attrarrebbe ulteriori capitali da parte degli investitori istituzionali.>>

Nicola Redi – E’ Investment Director Venture Capital presso Vertis Sgr. È stato Chief Investment e Technology Officer in TTVenture. Precedentemente ha lavorato per Pneumatici Pirelli e American Standard come capo della Project Management Office globale della R&S.

Mauro Pretolani-Fondo Italiano d’Investimento

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<<Partiamo dal presupposto che, dal punto di vista dell’ investitore, non è possibile sviluppare le startup senza l’obiettivo di realizzare un evento di exit, al fine di ottenere un forte capital gain sull’investimento. In Italia il principale elemento di freno allo sviluppo delle startup è sempre stato la ridottissima prospettiva di exit, sia che si tratti di quotazione in borsa o di vendita dell’azienda (trade sale).  Sotto questo aspetto, in passato il tema culturale è stato determinate, adesso è in miglioramento, ma rimane il fatto che l’Italia, fra i Paesi industrializzati è quello con meno aziende (di qualunque tipo) in borsa, a causa della riluttanza degli imprenditori a farsi controllare dal mercato. Anche rispetto alla cessione, gli imprenditori tradizionalmente sono contrari, e preferiscono lasciare in eredità ai propri figli.>>

Mauro Pretolani – Venture capitalist, manager, advisor (attualmente in Fondo Italiano d’investimento, Beintoo, Persado) è focalizzato nei settori Internet, Advertising, Big Data e Mobile e negli ultimi 15 anni ha lavorato in Europa, US, Israele e Cina.

Claudio Giuliano – Innogest

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“Per tutti e tre i motivi direi. La mancanza di capitali è un’evidenza, gli ultimi dati Aifi dimostrano come l’Italia sia ancora molto indietro rispetto al resto d’Europa e in particolare rispetto a Paesi alla portata dell’economia italiana tipo Francia, Spagna, Regno Unito e Germania. Far nascere una startup non è come portare avanti un’azienda consolidata, le dinamiche sono diverse. Ciò che manca al momento – anche se cominciano a intravedersi profili di questo tipo – sono persone che hanno già avuto esperienze professionali in startup, capaci di rispondere alle esigenze di una realtà piccola, che però ha necessità di crescere in fretta. Sappiamo bene che la maggior parte di queste startup operano in settori che non esistevano fino a quindici anni fa, penso all’e-commerce per esempio, ed è forse questo il motivo per cui manca ancora la cultura dell’analisi meticolosa di parametri come il “costo acquisizione dell’utente” e delle unit economics più in generale. Vediamo spesso startup in ambito online che improvvisano una strategia di sviluppo della propria presenza sul web, quando invece le tecniche di acquisizione e manutenzione della propria base utenti sono scienza nota, una scienza complessa, che richiede pianificazione e analisi giornaliera minuziosa dei dati.”

Claudio Giuliano – Torinese, da quasi 10 anni è Managing Director (e fondatore) di Innogest, da 2013 Chairman di Aifi. E’ ingegnere elettronico, ma quasi tutta tutta la sua carriera si è svolta in ambito manageriale.

Elisabeth Robinson – Quadrivio (TT Venture)

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<<Il trend è molto buono, il mondo del venture capital in Italia è cambiato notevolmente negli ultimi 5-7 anni e la qualità del deal flow è nettamente migliorato. Sono nati anche molti operatori, ma quasi tutti in ambito di seed round. Quello che è cambiato molto poco è il numero degli operatori istituzionali e la mancanza di capitali per round “venture” come TT Venture 2. (TT Venture 2, nuovo fondo di Quadrivio con obiettivo di raccolta di € 100 Mln, ndr). Culturalmente manca l’approccio filiera tipico del DNA italiano.>>

Elisabeth Robinson – E’ l’investment director del team venture capital in Quadrivio, dove è entrata nel 2014. Con oltre 20 anni di esperienza nel Venture Capital, è anche business angel associato IAG.

Lorenzo Franchini – Scale IT Capital

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<<Si può dire che un po’ mancano tutte e tre le cose (capitali, cultura, buone startup), ma con diversi livelli di importanza e responsabilità. La colpa principale è della cultura, una cultura avversa al rischio, degli investitori innanzitutto ma un po’ anche degli imprenditori, avversa alla fiducia verso il prossimo, avversa a un modello contemporaneo di fare impresa che non è più basato sul “one man band” o sul legame di sangue, ma sul team, sulla collaborazione e sulla ricerca dell’eccellenza dei talenti. A cascata questa cultura sbagliata porta a pochi capitali sul mercato che sono investiti nell’asset class del venture capital. Pochi capitali di privati e pochi istituzionali. A cascata ancora, con un mercato che da anni langue tra i 100 e i 150 milioni, mancano grosse quantità di buone startup, ma non c’è da stupirsi, nel gioco del viene prima l’uovo e la gallina io mi sono risposto (studiando a fondo gli ecosistemi migliori al mondo) che viene prima il capitale. Uno dei punti di speranza è che le poche buone startup italiane sono assolutamente competitive con le molte buone internazionali.>>

Lorenzo Franchini – Si definisce “entrepreneur in the venture investing arena”. Business angel da oltre 10 anni e co-fondatore di IAG (la principale associazione italiana di business angel) di cui è stato a lungo MD, ha fondato da alcuni anni ScaleIt Capital che organizza l’evento di fundraising per scaleup Scale IT. E’ anche senior advisor del gruppo LVenture.

Francesco Mantegazzini – MGH7 Venture Capital, Global Startup Expo

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<<Ci sono pochi soldi perché il sistema di supporto del Governo tuttora è piuttosto scarso e limitato solo alle startup innovative ad alto contenuto tecnologico, di fatto estromettendo dai già pochi incentivi esistenti tutte le nuove imprese innovative nei settori del cibo, moda, design e tanti altri che non hanno nel proprio oggetto sociale appunto lo sviluppo e commercializzazione di prodotti ad alto contenuto tecnologico. Che poi sul concetto di “tecnologia” potremmo discutere per decenni. Inoltre mancano i grandi business angel che hanno accumulato grosse fortune con precedenti loro imprese e che sono tipicamente poi molto inclini a reinvestire buona parte di queste risorse. Quindi in realtà non mancano né capitali, né cultura, né buone startup, semplicemente siamo in un sistema ancora in fase di evoluzione in un paese che non aiuta a lavorare e ad investire.>>

Francesco Mantegazzini –  Investitore e fondatore di MGH7 Venture Capital, manager e fondatore della Global startup expo. E’ anche un business angel associato IAG. Esperto in business development, ha maturato la sua esperienza manageriale in grandi aziende come Gruppo Sole 24 Ore e Telecom.

Pietro Bezza – Connect Ventures

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<<Partiamo da una distinzione. Ci sono abbastanza capitali per finanziare lo start up, ma sicuramente ci sono pochi capitali per finanziare lo scale up.
 Il problema principale è che ci sono pochissimi esempi di startups taliane che hanno avuto successo su scala globale. Successo chiama altro successo. In altri ecosistemi il circolo virtuoso è partito molto prima o molto piu velocemente, ma ci vogliono alcune case history per attivare il sistema.  La domanda allora diventa: perché non ci sono case history. Le poche iniziative che hanno raggiunto una soglia interessante sono state acquisite ancora prima di provare a diventare category leader. Perché mancano i capitali o perché manca l’ambizione o perché manca la cultura di “make a dent in the universe”, creare qualcosa di impattante a livello globale e durevole? Fuori dall’Italia ci sono capitali per lo scale up e startups in altri paesi come la Germania, la Spagna, la Francia o perfino il Portogallo hanno raccolto capitali “growth” da fondi europei ed USA. Perché questo non succede in Italia? Io non ho la risposta, ma posso avere delle ipotesi.>>
Pietro Bezza – Co-founder e Managing Partner di Connect Ventures, Vc europeo che opera basato a Londra. Ha fortissima esperienza come investitore e come imprenditore nel settore digitale e web.

La prossima domanda che faremo è ” Cosa si può fare per far entrare l’Italia nel radar degli investitori internazionali?”

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