Private equity monitor 2018, un mercato finanziario ancora in affanno

Il mercato italiano del private equity è ancora in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, serve uno slancio per rafforzare il sostegno alle imprese

Pubblicato il 22 Mag 2019

Stefano Peroncini, venture capitalist che collabora con Startupbusiness ha seguito i lavori che hanno portato alla presentazione del Private Equity Monitor e ne ha scritto analizzando lo scenario e andando oltre ai numeri registrati nel 2018 per cercare di comprendere più in profondità le cause di un sistema che ancora appare troppo rigido e incapace di stare al passo con le grandi economie europee. Benchè il Private Equity non riguardi direttamente il mondo delle startup in fase iniziale è però altrettanto vitale per comprendere le dinamiche di come il mercato finanziario sostiene il mondo della imprenditorialità e quindi porta valore alle fasi di crescita e di espansione, nonchè alle imprese che con questi capitali possono avviare azioni di open innovation e quindi avere un impatto diretto anche sulle startup early stage.

Presentati ieri a Milano i dati della diciottesima edizione del Private Equity Monitor, relativamente al mercato italiano del Private Equity nel 2018. Un appuntamento ormai fisso, dove si è fatto il punto del mercato e soprattutto dell’appetibilità del bel paese verso gli investitori internazionali.

Ebbene, in sintesi qualche dato.

  • Il 2018 ha registrato un nuovo record in termini sia di operazioni effettuate sia di numero di operatori attivi: 175 deal sono i deal mappati (contro i 123 nel 2017), effettuati da 125 operatori (contro i 92 nel 2017). Il dato rilevante è che ben la metà di queste operazioni sono state effettuate da operatori internazionali.

  • Il mercato italiano si conferma un mercato fatto di operazioni cosiddette di buy-out (72% del totale), che ricordiamo essere investimenti tipicamente di maggioranza, effettuati spesso anche tramite ricorso a indebitamento che viene rimborsato con l’utilizzo dei flussi di cassa positivi generati dall’impresa stessa.
  • L’impresa target è localizzata nel nord Italia, con un giro di affari sotto i 30 milioni di euro. La “buona” notizia è che la Lombardia non fa più il 50% delle operazioni come negli anni precedenti, fermandosi al 34%; si affacciano anche Emilia Romagna (17%), Piemonte (11%) e Veneto (13%), e tutte e 4 le regioni insieme fanno il 75% del totale. Qualche timido segnale per il Sud Italia, che registra 9 operazioni, di cui 4 in Puglia.
  • Se il 42% degli investimenti ha avuto come target imprese con un fatturato inferiore ai 30 milioni di euro, il 16% ha coinvolto aziende con un fatturato compreso tra i 31 e i 60 milioni, tra 61 e 100 milioni il 17%, tra 101 e 300 milioni il 16% e oltre i 300 milioni il 9%.
  • Il profilo medio dell’investimento: 32 milioni di euro, a un multiplo EV/Ebitda pari a 10,1x (in crescita rispetto ai due anni precedenti, rispettivamente 9,2x nel 2017 e 7,9x nel 2016) e sempre nel settore dei prodotti industriali, per una quota acquisita del 74%.
  • Il periodo medio di permanenza delle società in portafoglio, il cosiddetto “holding” period, è pari a 4  anni e 8 mesi, in linea con quanto si è registrato sin dal 2011, che è sempre stato più o meno i 5 anni.
  • L’exit per il 40% delle operazioni si è realizzata tramite trade sale, ossia cessione tipicamente a partner industriale (diciamo quella più virtuosa), per il 40% tramite releverage (cambio del testimone con altri fondi di private equity, magari con ulteriore iniezione di debito, un po’ meno virtuosa) e solo per il 3% tramite IPO (quotazione in Borsa).

Dopo la presentazione dei numeri, si è parlato di come gli investitori internazionali vedano i nostri fondi di private equity, o meglio, come non ci vedano. Emidio Cacciapuoti dello Studio Legale McDermott Will&Emery ha ricordato come gli investitori istituzionali esteri abbiano due regole, per selezionare i gestori in cui investono: 1. “no first fund first team” e 2. almeno 350 milioni di euro di obiettivo di raccolta. End of the story! Inoltre un sempre maggior peso viene posto dagli investitori stranieri per investire in Italia sugli aspetti cosiddetti Esg, ossia environment, society e governance. La selezione degli asset avviene con una valutazione particolare riguardo ai criteri ambientali, sociali e di governance degli operatori target. Un sondaggio mostrato riporta che l’86% degli investitori tiene conto dei fattori Esg adottati dai fund manager nelle proprie decisioni di investimento, di questi il 47% le ritiene indispensabili mentre il 39% ne ritiene conto solo in parte. Un ambito sul quale i nostri italiani, francamente, a oggi sono alquanto in ritardo, sia nella comprensione che declinazione nei loro piani strategici e operativi.

E il mercato degli investitori istituzionali italiani? Ahimè, lascia ancora meno speranze: un appassionato intervento di Roberto del Giudice, responsabile comunicazione, Investor relation e Csr del Fondo Italiano di Investimento, ha rappresentato in maniera cruda ma efficace tutte le problematiche del mercato italiano degli investitori professionali, relegato agli ultimi posti in Europa.

Vediamo brevemente chi potrebbe investire nell’asset class del private capital (private equity, venture capital e private debt) ma per un motivo o per l’altro non lo fa o la fa in maniera estemporanea o con rapporti sulle masse in gestione ridicoli.

  • Assicurazioni: in Italia ci sono asset in gestione per 600 miliardi di euro, concentrati in 20 operatori, di cui 15 hanno allocato tra lo 0,5% e l’1% del proprio portafoglio in private capital. Non si va oltre per due motivazioni: 1. spread (si si proprio lui, quell’antipatico numero che sembra essere davvero il male di tutti i tempi, sempre tirato per la giacchetta); 2. i solvency ratio e tutta la normativa che ne consegue (i ratio di solvibilità, che bloccano di fatto assicurazioni e banche). Qui noi non possiamo permetterci la chiamata del capo del governo che sollecita i principali player assicurativi per fargli investire nel venture capital, come accaduto in Francia. E se anche dovesse  capitare, temo si girerebbero dall’altra parte.
  • Casse di Previdenza, quelle dei professionisti iscritti ad albi per intenderci. Ne abbiamo circa 20, per circa 80 miliardi di asset. Rappresentano l’investitore forse più preparato, con tecnici molto competenti che fanno la selezione dei fondi in cui investire. In totale hanno l’1,5-1,6% di commitment sulle nostre asset class. Problemi: 1. una durata infinita del processo decisionale, con una distanza spesso enorme tra la struttura tecnica operativa e gli organi che prendono le decisioni di investimento.
  • Fondazioni Bancarie. In Italia abbiamo ben 88 fondazioni bancarie, di cui solo 10 con un patrimonio da oltre 1 miliardo di euro. Problemi: 1. dimensioni piccole delle fondazioni e dei relativi patrimoni; 2. necessità che gli investimenti abbiano una certa ricaduta sul territorio di riferimento. Cosa che – per assurdo favorisce gli investimenti nei fondi di venture capital – che hanno più probabilità di “vendere” dei ritorni territoriali quali appunto la capacità di creare startup, generare posti di lavoro, lavorare con le università vicine alle fondazioni e avere quindi un maggior impatto sull’economia reale.
  • Fondi Pensione negoziali, ossia quelli nati post riforma destinati a specifiche categorie di lavoratori. Sono 35, con circa 50 miliardi di asset in gestione, di cui solo 10 con un 1 miliardo. Problemi: 1. organizzazioni prive delle competenze tecniche, che spesso demandano la scelta di investire o meno ad advisor esterni con cui l’interlocuzione non è semplice; 2. ridotta propensione al rischio, privilegiando da sempre investimenti in titoli di stato e operazioni immobiliari.

A completamento del quadro, aggiungo qui il confronto su alcune fonti di raccolta, presentati dall’associazione di categoria AIFI di recente. 

Il grande assente in questo scenario è il Fondo di Fondi, uno strumento vitale che all’estero contribuisce anche fino al 20% sul totale raccolto. Che per non addetti ai lavori, significa investitori che investono in un fondo che a sua volta investe in fondi sottostanti. Anche su questo fronte ahimè siamo piuttosto scarichi, a eccezione di quanto fatto sino a oggi dall’area Fund of Funds di Fondo Italiano di Investimento (che ha investito circa 1 miliardo nelle varie asset class del private capital), a cui si deve la rinascita di una parte del venture capital italiano degli ultimi anni ma che purtroppo sembra sia destinato a cambiare strategia; e a Fare Venture, iniziativa promossa da Lazio Innova (di cui, per inciso, faccio parte del Comitato di Investimento), che deve però ancora impiegare la sua dotazione di 56 milioni di euro. Di recente abbiamo però accolto con favore la nascita del fondo di fondi gestito da Sella Venture Partners Sgr promosso da Banca Sella, destinato ad investire nei migliori fondi internazionali e che speriamo possa però dare una mano anche agli operatori italiani. Ma due o tre fondi di fondi in Italia sono lontani anni luce dalla numerosità di cui invece avremmo bisogno.

In questo scenario poco confortante, si muovono come abbiamo visto per lo meno i 125 operatori di cui sopra (quelli di private equity) e direi almeno un’altra cinquantina di operatori tra venture capitalist, club deal, veicoli quotati, etc. Insomma, in tanti a cercare capitali a casa di pochi, che hanno tutto sommato patrimoni modesti da investire.

Insomma, sembra davvero un mercato finanziario che fa fatica ad evolvere, fatto da investitori (poco) professionali, con limitati patrimoni in gestione da affidare ai fondi. Un’industria che non decolla perché a monte non c’è un sistema organizzato di investitori, e che come ha ricordato l’AIFI nel tradizionale appuntamento di marzo, sebbene nel 2018 abbia raccolto poco meno di 3,5 miliardi di euro e investito la cifra record di circa 9,8 miliardi, ancora è ben lontano dalla media europea.

E’ ancora questa una sfida su cui tutti gli stakeholder devono misurarsi e di cui avevo già parlato tempo fa, qui sempre su Startupbusiness, in un post intitolato “Emergenza venture capital in Italia, ecco le sfide per crescere

Le mie considerazioni finali:

  1. Spiace vedere che le operazioni di expansion capital (quelle di cui le nostre PMI avrebbero tanto bisogno, per crescere di dimensione, internazionalizzarsi, “managerializzarsi” e superare la dicotomia famiglia-impresa ecc) subiscono una frenata. E che metà delle nostre aziende vengono acquisite da operatori stranieri. Restiamo sempre terra di facile shopping.
  2. l’Ipo in Italia rimane sempre una meta ambita, difficile da raggiungere. E’ quasi impossibile per le operazioni di venture capitali e a quanto pare lo è anche per i fondi di private equity. Fino a quando non avremo un mercato finanziario più sviluppato rimane preclusa una modalità di disinvestimento che invece all’estero è molto presente e genera ritorni e liquidabilità degli investimenti che alimenta positivamente le storie di successo, la nascita di nuovi fondi di investimento e cosi via, in un ciclo più virtuoso.
  3. Il mercato dei capitali italiani deve crescere, in termini di competenze, di masse gestite ma anche di trasparenza di processi decisionali di investimento. In 6-8 settimane un gestore ha una risposta da parte di possibili investitori esteri; da un investitore Italiano non basta un anno, anche quando ci si appoggia a professionisti che – in assenza di un ruolo chiaro e definito di placing agent – si adoperano per aiutare nelle relazioni tra gestori e investitori.
  4. Gli operatori italiani attendono con ansia che gli annunci e i progetti del governo in carica siano declinati efficacemente, cosicché una “mano pubblica virtuosa” cali a supporto dell’industria del private capital: sigle quali Pir (piani individuali di risparmio), Sis (società di investimento semplice), Eltif (European long term investment fund), Fni (Fondo Nazionale Innovazione) e tanto altro potrebbero dare un contributo davvero importante al sistema.

Stay tuned

Fonte dei dati: Private Equity Monitor (Pem). 

 

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