Quanto vale l’ecosistema startup hi-tech italiano?

Misurare il tangibile: quali confini e criteri per quantificare l’ecosistema startup hi-tech italiano. Ecco il perchè delle differenze tra i dati presentati

Pubblicato il 19 Lug 2017

L’ecosistema italiano startup attrae una crescente attenzione mediatica, purtroppo ancora ben superiore alla sua capacità di attirare effettivi finanziamenti.

Questa enfasi porta anche ad una “corsa all’oro” nel mondo dei provider di dati e informazioni, che tentano di riposizionarsi o reinventarsi per coprire l’universo startup. Ciò che colpisce non è l’attenzione di società di ricerca e consulenza rispetto a un tema emergente e rilevante (basti pensare alla competizione tra le grandi società di ricerca sul tema dell’analisi e previsione dei trend IT; e tra le grandi società di consulenza sulla riconversione verso l’ancora frammentato universo della “Digital Innovation e Transformation”); è la talvolta significativa diversità e incoerenza tra i risultati delle analisi presentate.

Come spiegare questo fenomeno?

Va detto che la teoria imprenditoriale e manageriale si porta spesso con sé l’annoso tema del “measuring intangible”, ossia il quantificare asset intangibili quali capitale relazionale e sociale, capitale intellettuale e know-how, e più in generale risorse e competenze soft. Se intangibili possono essere le motivazioni alle spalle degli investimenti – e come tali vanno studiate – le transazioni finanziarie legate agli investimenti si esplicitano invece in un valore chiaramente quantificabile. Ciò significa che, previa una solida e robusta definizione dei confini di analisi e delle metodologie di ricerca, la loro valutazione non è soggetta a interpretazioni.

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Per questo è opportuno – se non addirittura essenziale – definire in maniera scientificamente rigorosa confini e criteri che possano porre le basi per una valutazione chiara dello stato attuale e del potenziale del nostro ecosistema.

Startup innovativa, digitale, hi-tech

Innanzitutto, partiamo brevemente dalla definizione di startup, argomento che è spesso oggetto di domande che mi giungono da diversi canali – media e professionali – e che denotano una certa confusione tra i concetti di startup innovativa, startup digitale, startup hi-tech e startup finanziata.

Startup innovativa è un termine “coniato” nel nostro Paese (questo perché in letteratura accademica è di fatto tautologico parlare di startup innovativa) in riferimento alle startup che rispettano i requisiti per l’ammissione alla sezione speciale “Startup Innovative” del Registro delle imprese (http://startup.registroimprese.it/).

Startup digitale è una startup che sfrutta le tecnologie digitali all’interno del proprio modello di business. Startup hi-tech si riferisce alle startup a elevato contenuto innovativo, che all’interno dell’Osservatorio Startup Hi-tech della School of Management del Politecnico di Milano classifichiamo nei seguenti ambiti: Digital, Cleantech & Energy, Life Science. Startup finanziata è una startup che ha ricevuto finanziamenti in capitale di rischio o capitale equity da parte di attori formali – Venture Capital indipendenti (IVC ), fondi di Corporate Venture Capital (CVC ) e Finanziarie Regionali – e informali – Venture Incubator, Family Office, Club Deal, Business Angel e aziende non dotate di fondo strutturato di CVC. Dunque, le startup digitali sono incluse nell’insieme delle startup hi-tech; mentre, come mostrano i nostri dati, non esiste piena sovrapposizione tra startup hi-tech e startup innovative (il 30% delle startup finanziate non risultano iscritte al Registro delle Imprese).

Definita l’unità di analisi, è possibile stabilire confini, metodologie e metriche della quantificazione, così da evidenziare le differenze con altre stime pubblicate.

Il metodo

La scelta dell’Osservatorio di focalizzarsi su startup hi-tech finanziate (poco più 650 in Italia dal 2012 a oggi, rispetto per esempio alle oltre 7000 startup innovative che compaiono a Registro) riflette la volontà di dare maggiore enfasi a quelle startup il cui contenuto innovativo sia effettivamente elevato e la cui qualità sia stata preventivamente certificata da attori formali e informali – i quali erogano un finanziamento equity solo a fronte di una valutazione o “due diligence” più o meno strutturata.

Anche il selezionare adeguatamente la tipologia di capitale erogato da monitorare rappresenta una scelta critica di metrica: il finanziamento equity, ove l’investitore compartecipa del rischio ed è effettivamente interessato all’andamento di lungo periodo della startup (alla quale conferisce spesso anche apporto di competenze manageriali e di controllo) influenza in maniera sostanziale il tasso di sopravvivenza; ciò non è necessariamente vero per quel che concerne finanziamenti in capitale di debito, da restituire a scadenza in funzione di un tasso d’interesse – tale differenzia è testimoniata dal fatto che, per rendere i finanziamenti tramite debito più efficaci, si tenda ad allungarne la scadenza, rendendoli così nella sostanza più simili all’equity – o grant, iniezioni di capitale a fondo perduto che portano giovamento nel breve periodo ma non sono spesso associati a servizio di supporto e controllo strutturati e di lungo termine. Comparando le diverse fonti, si assiste invece a una certa incoerenza nel paragonare o far confluire all’interno della stessa stima finanziamenti di diverse tipologie, senza sottolineare adeguatamente la rilevanza dell’equity.

Inoltre, definire opportunamente i confini delle analisi risulta fondamentale per una maggior comprensione del fenomeno. Oltre al fare riferimento in maniera puntuale a investimenti da parte dei fondi di Venture Capital indipendenti, più facilmente mappabili e tracciabili – anche perché spesso appartenenti ad associazioni di categoria – è importante considerare un’altra tipologia di attori formali, le Finanziarie Regionali, che le nostre analisi mostrano giocare un ruolo rilevante in Italia in termini di finanziamenti erogati. È inoltre rilevante monitorare in maniera strutturata gli investimenti da parte di attori informali – che, nostri dati alla mano, pesano per ben 81 dei 182 milioni di euro investiti nel 2016 da investitori italiani in startup hi-tech nel nostro Paese.

Concentrarsi su capitale equity erogato anche da attori informali e Finanziarie Regionali consente anche di rendere conto di una specificità del nostro ecosistema ancora immaturo: la prevalenza di round di finanziamento di piccolo taglio, che appartengono alla fascia “pre-seed”  o “seed financing”. Fissare a priori un limite inferiore al taglio di finanziamento considerato, privilegiando le grandi operazioni in fase “startup”, “later stage” o addirittura Private Equity (che dovrebbe invece concentrarsi su imprese già consolidate), ben si presta a altisonanti dichiarazioni mediatiche, ma rischia di portare a importanti omissioni rispetto a finanziamenti di piccolo taglio dai quali,  tuttavia, proverranno le startup che crescono e si consolidano grazie a round successivi. Il fatto che l’ecosistema startup italiano, per crescere, debba alimentare il numero di investimenti di taglio mediamente più elevato, e le exit che ne conseguono, è risaputo; ciò non toglie che l’omettere gli investimenti equity in fase seed sia metodologicamente poco rigoroso e concretamente poco rappresentativo della realtà.

L’apporto di capitali esteri e le conseguenze sugli spostamenti di sede delle startup italiane sono inoltre fonte di possibili incoerenze. È essenziale monitorare in dettaglio gli investimenti erogati a startup il cui headquarter al momento del finanziamento sia localizzato in Italia, evidenziando poi eventuali dinamiche di internazionalizzazione che portino la startup stessa ad abbandonare il nostro Paese a fronte dell’investimento. È altresì utile distinguere in maniera chiara quei capitali erogati da investitori con sede principale in Italia o all’estero, così da rendere conto dell’effettiva capacità di “autofinanziamento” del nostro Paese ed evidenziare il fenomeno – così importante per la crescita del nostro ecosistema – del co-investimento o “syndication” che coinvolga attori internazionali.

Le fonti dei dati

Per ultimo, è bene citare come le fonti utilizzate per la raccolta dati influenzino a loro volta in maniera significativa i risultati ottenuti. Molteplici analisi tendono esclusivamente ad aggregare fonti secondarie, derivanti da database internazionali che spesso riportano dati parziali – per un tema di sensibilità delle informazioni – o frutto di auto-certificazione; in altri casi, le analisi raccolgono dati da fonti primarie, legate tuttavia a campioni non necessariamente rappresentativi della totalità della popolazione d’indagine. La scelta dell’Osservatorio Startup Hi-tech di utilizzare, in tutte le fasi di ricerca, una combinazione di fonti primarie e secondarie (con le seconde utilizzate al fine di corroborare le prime e fare emergere eventuali discrepanze da analizzare con maggior attenzione) e di adottare una prospettiva trasversale rispetto alle categorie di attori interpellati, consente una elevata esaustività e rappresentatività dei risultati ottenuti – a fronte dei chiari confini delineati.

La combinazione di differenti scelte metodologiche in termini di confini d’indagine e criteri di valutazione possono portare a risultati anche significativamente differenti.

A titolo di esempio, è di recente pubblicazione un articolo del Corriere della Sera che quantifica gli investimenti 2016 in startup citando dati Aifi, Associazione Italiana dei Fondi d’Investimento. L’articolo riporta considerazioni qualitative condivisibili, bensì da un punto di vista quantitativo alcuni dati chiave (quali il valore totale degli investimenti erogati, il numero di startup finanziate e l’entità di alcuni round di finanziamento) siano significativamente diversi da quelli raccolti dall’Osservatorio Startup Hi-tech.

Le cifre

Nel 2016, gli investimenti in startup hi-tech da noi stimati sono pari a 217 milioni di euro (a loro volta determinati dai 182 milioni di euro investiti da attori italiani e i 35 milioni provenienti da attori internazionali), rispetto alla stima Aifi di 166 milioni. Allo stesso tempo, le startup finanziate nel 2016 da parte di attori formali e informali da noi mappate sono state pari a 196, rispetto alle 112 riportate dall’articolo. Il delta di oltre 50 milioni di euro di investimenti (quasi un quarto del valore complessivo degli investimenti) e di ben 84 startup finanziate deriva da: (i) una maggior copertura trasversale delle operazioni provenienti da fondi formali; (ii) l’inclusione esplicita dei finanziamenti equity anche di piccolo taglio provenienti dal mondo informale; e (iii) il ricorso a fonti primarie di informazioni, per definizione più precise – a fronte di una maggior onerosità della raccolta.

Tutte le ricerche e fonti in ambito startup possono fornire il loro contributo, a patto che se ne delimitino obiettivi, confini e metodi.

Non si può migliorare ciò che non si può misurare; e non si può misurare ciò che non si può operativamente definire. L’ecosistema startup italiano ha oggi bisogno di qualsiasi leva per potersi migliorare: definizioni e misurazioni comprese.

Contributor: Antonio Ghezzi, Direttore Osservatorio Startup Hi-Tech del Politecnico di Milano e Professore di Strategy & Startups presso il MIP Graduate School of Business e il Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano

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