Francesco Inguscio, il mago della pioggia nella top ten di Ubi Index

Pubblicato il 18 Set 2014

Con la sua azienda Nuvolab, incubatore o catalizzatore virtuale di startup innovative, Francesco Inguscio, veneto con sangue del sud, 32 anni e un’esperienza formativa e lavorativa già lunga, importante e geograficamente distribuita, è entrato nella top ten dell’Ubi Index, pubblicato nei giorni scorsi e cosiderato il benchmark di riferimento degli incubatori d’impresa nel mondo. 

Nuvolab si è guadagnato il 10 posto della classifica, al secondo è presente anche H-Farm, l’incubatore che fa capo a Riccardo Donadon, già molto noto, per cui niente di nuovo sotto il sole. La vera, piacevole, sorpresa è appunto trovare due realtà italiane nella top ten e sopratutto trovare Nuvolab. Abbiamo rintracciato il suo fondatore Francesco Inguscio e abbiamo fatto una chiaccherata.

Francesco, ti aspettavi questo riconoscimento? che effetto ti ha fatto e cosa significa in concreto?

A dire il vero questo riconoscimento giunge tanto gradito quanto inatteso, viste le altre realtà mappate dall’analisi dell’UBI Index.

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Leggendo le motivazioni del riconoscimento siamo stati premiati però non per le dimensioni della nostra realtà ma per l’alto livello di performance nel periodo post incubation (investimenti, start up create e “sopravvissute” al mercato, numero di partecipanti ai singoli progetti).
Usando le parole di Warren Buffett quindi “What counts is not the size of a motor, but its degree of efficiency”. Ricordo a tutti, in ogni caso, con un po’ di umiltà che non guasta mai, che questo indice non rappresenta tutti gli incubatori ma solo quelli che collaborano/hanno collaborato con le Università ed hanno acconsentito a farsi “mappare” dall’UBI Index.

Nuvolab non ha una sede fisica, qual’è il suo modello di “incubazione”?

Noi siamo un business accelerator più che un classico “incubatore”.
Quindi non supportiamo semplici idee di impresa “su carta” trasformandole in startup embrionali (quindi non andiamo “da 0 ad 1”) ma operiamo prevalentemente su progetti d’impresa con team completo, prodotto definito e mercato testato, accelerandone le sviluppo incrementandone fatturato e accesso al finanziamento (portandole quindi “da 1 a 10”). Da qui anche la maggiore efficienza ed efficacia della nostra azione.

Cosa facciamo esattamente? Nel corso del tempo abbiamo “formalizzato” le attività che svolgiamo, ispirandoci alle metodologia di lean startup, tramite il framework della “danza della pioggia” (vd immagine).

Non per tutte le startup che supportiamo è necessario fare tutti i passaggi del nostro percorso però.. meglio essere sempre preparati!

Come lo facciamo? Qui entra in gioco il nostro “collaborative rainmaking”. Ci siamo circondati nel corso degli anni di collaboratori, imprenditori, investitori e professionisti molto validi ed efficaci (i nostri “Rainmaker”), capaci di creare valore e risultati per le startup che aiutiamo. Abbiamo trovato modi efficaci per farli lavorare tutti insieme per far accelerare la crescita dei progetti che supportiamo (il “collaborative rainmaking”, che è anche il nostro mantra aziendale).

Quali sono le fatiche e i vantaggi di applicazione di questo modello in Italia?

All’inizio, quando sono tornato dalla Silicon Valley alla fine del 2010, mi è stato un po’ difficile circondarmi delle persone giuste.
In Italia, soprautto in questi ultimi anni con il dilagare della “moda” delle startup, l’ecosistema dell’innovazione si è riempito di molti “smokeseller” più che di “rainmaker”.
Ma provando e riprovando, imparando dai nostri stessi errori, abbiamo potuto verificare che le persone valide dai sani principi non sono tutte emigrate all’estero e c’è un folto gruppo di persone capaci ed ingamba che credono in quello che fanno e sono estremamente competenti nelle loro attività.

L’innovazione che si fa impresa in Italia è quindi un risultato raggiungibile? qual’è in Italia a tuo parere l’anello più debole nella catena che porta dai laboratori e dai “garage” all’impresa?

Come sempre la differenza la fanno.. le persone.
Purtroppo (o per fortuna) la bontà di una idea non serve a nulla se le persone che la provano a realizzare non sanno trasformarla in realtà.
Gli americani dicono “success is 1% idea, 99% execution”. E l’execution dipende dal core team aziendale.
In Italia l’imprenditorialità non è mai stato coltivato come un valore primario nella nostra società (come invece avviene, ad esempio, negli USA) e non c’è mai stato un vero interesse a capire come essere dei buoni imprenditori… al massimo si è studiato per diventare dei buoni manager.
Oltre alla capacità imprenditoriale manca la motivazione a buona parte dei ragazzi che si imbarcano in una impresa: con la disoccupazione crescente, si fa impresa non per scelta ma per mancanza di scelte. Pessima idea. A questo punto meglio fare il dipendente (capace) all’estero, piuttosto che l’imprenditore (incapace) in Italia.

Tu hai vissuto e lavorato per un pò in US e quindi conosci quel mercato, pensi che arriveranno mai investitori vc stranieri in Italia?

Credo che se Maometto non viene alla montagna, a questo punto sia più semplice che sia la montagna a darsi una mossa.
Pur essendoci alcuni casi di investitori stranieri che hanno creduto in startup italiane (richiedendo però spesso lo spostamento di sede legale e core team all’estero), come è successo per Depop (supportato da Balderton in UK) o Decysion (supportato prima da Axel Johnson e poi Catalyst Investor negli USA). In generale c’è una forte diffidenza per il nostro sistema Paese, visto l’instabilità politica, la scarsa applicabilità delle nostre leggi e le politiche fiscali estremamente penalizzanti per chi fa impresa e chi investe nel nostro Paese. Non è un caso se siamo 65° al mondo, secondo le statistiche della Banca Mondiale, come attrattività per chi vuole fare impresa (http://www.doingbusiness.org/rankings), dopo Samoa e Tonga.
A mio avviso, nel breve periodo, se un futuro ci può essere per i nostri imprenditori nell’attrarre investitori stranieri è esclusivamente tramite modelli di “dual company”: R&D in Italia, HQ all’estero (meglio in contesti politicamente stabili ed economicamente non punitivi per chi fa impresa, come in UK o negli USA, piuttosto che Singapore).
Gli esempi di startup nate direttamente all’estero da un team italiano e finanziati da investitori stranieri sono numerosissimi e credo che sia ora di.. comportarsi di conseguenza.
Non c’è diffidenza nei confronti degli imprenditori italiani. C’è scarsa credibilità dell’Italia come luogo idoneo a fare impresa.

In definitiva, consiglieresti a una startup di rimanere in Italia oggi? 

Ad una startup che parte oggi in Italia solitamente suggeriamo di fare lo “start-up” in Italia (su un mercato che anche se non è il mercato principale è senza dubbio più noto, con costi tutto sommato accettabili rispetto all’estero e minori costi di coordinamento con altre nazion).
Però una volta validata la propria value proposition sul mercato domestico è imperativo fare lo “scale-up” all’estero, eventualmente mantenendo l’R&D in Italia.
In sintesi quindi: “startup here, scaleup there”

Ultima domanda: se dovessi fare un tuo personale Index degli incubatori mondiali, chi metteresti nei primi 10 posti?

Se potessi inserire sia incubatori che acceleratori (visto che il confine è molto labile) e non fermarmi alla sola Europa (quindi a livello mondiale) e ai soli incubatori legati in qualche modo alle università (quindi considerare anche gli incubatori “indipendenti”)  la mia preferenza andrebbe a: Y Combinator, TechStars, AngelPad, Seedcamp, StartupBootcamp, Idealab, InnoSpring, DreamIt, ATP Innovations.
Non ho messo un ordine di preferenza perchè ognuno ha le sue peculiarità e il loro “successo” cambia in base ai parametri che si prendono in considerazione nella valutazione (funding delle startup, fatturato, dipendenti, economic value delle startup etc).
Inoltre ne ho indicati solo 9 e non 10.
Perchè? Spero un giorno che al decimo posto in una classifica omnicomprensiva ci possa essere anche un acceleratore o incubatore italiano.
Meglio tenere quindi un posto da parte, alzare l’asticella e non accontentarsi mai.
E ora.. torniamo al rainmaking!

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