Come funziona Ico, il nuovo modo per finanziare le startup

Ico, Initial coin offering, è la nuova formula per finanziare le startup basata su blockchain. Ma è una buona alternativa? Cosa dice l’esperto Giacomo Zucco

Pubblicato il 15 Lug 2017

Si chiama Ico, sigla che sta per Initial coin offering ed è la nuova formula di finanziamento per le startup. Il fenomeno è in forte crescita, benché in numeri assoluti sia ancora in fase iniziale ed è specificamente adatto alle startup che propongono soluzioni basate sulla blockchain, in particolare  cryptocurrency. Il sistema pare essere efficace, almeno in questa fase embrionale, sia perché è di fatto non regolamentato e quindi consente di agire con maggiore velocità e libertà, sia perché l’attuale successo in termini di valorizzazione delle cryptovalute ha contribuito ad accendere i riflettori su questa opportunità.

In pratica una Ico vede la startup che la applica offrire una percentuale della cryptovaluta ai primi  acquirenti interessati in cambio di valuta tradizionale o di altre cryptovalute, tipicamente bitcoin, questa la definizione secondo Investopedia che ne descrive dettagliatamente il funzionamento.

La maggior parte di queste operazioni, secondo un’analisi fatta da The Guardian , è considerata come una sorta di crowdfunding per le startup di cryptomonete. Il ritorno finanziario degli investitori, o meglio di coloro che per primi credono nelle potenzialità della startup, è essenzialmente legato a quanto il valore della nuova cryptocurrency, emessa dalla startup stessa, salirà nel tempo. Il meccanismo, riflette The Guardian, è quindi molto simile a quello di una Ipo (Initial public offering) tradizionale, quindi alla quotazione in Borsa con però due importanti differenze: la prima è che l’Ico avviene all’inizio della vita della startup e quindi è in grado di portare valore finanziario da subito; e la seconda è che non richiede, essendo non regolamentata, i tempi e i costi finanziari e burocratici tipicamente legati a una Ipo.

Va ribadito che questo strumento è applicabile da startup ben specifiche e che è ad alto rischio di investimento e di gestione. Il valore della Ipo tradizionale rimane perché, proprio in quanto avviene quando l’azienda ha già raggiunto un consolidamento, ha mediamente fattori di rischio minori (e anche minori ritorni potenziali) e porta risorse finanziarie a un’azienda che deve crescere, mentre la Ico li porta a un’azienda che sta nascendo. Fatte queste dovute differenze e specificazioni resta interessante il valore di questo strumento sperimentale, sia perché è di fatto uno strumento del tutto nuovo e quindi ancora una volta si dimostra la capacità delle startup non solo di fare cose nuove ma di farle in modo nuovo, e in questo caso anche finanziarle in modo nuovo; sia perché rappresenta un esempio piuttosto eclatante di come si possa attuare un processo di finanziamento del tutto svincolato da qualsiasi contesto regolatorio, cosa che quindi apre nuove sfide agli assetti e ai modelli finanziari tradizionali. Non sono quindi più solo le banche o gli istituti finanziari che si occupano di risparmio, pagamenti, investimenti, asset management a essere soggetti ai cambiamenti del fintech, ma anche coloro che sono già vicini al mondo delle startup come i venture capital.

I limiti dell’ICO

“Si tratta di un fenomeno con cifre pazzesche. Sicuramente potrebbe essere un modo per sbirciare dal buco della serratura su una nuova modalità di fare crowdfunding e investimenti startup nel futuro, ma per ora ha ancora le caratteristiche di una grande ondata di schemi Ponzi e di una bolla finanziaria”, spiega Giacomo Zucco Ceo di BHB Network, il nuovo nome Blockchainlab a seguito della costituzione della società con sede in Svizzera. Il quale spiega a Startupbusiness gli elementi di criticità delle Ico analizzando i tre punti principali su cui sarà fondamentale compiere passi avanti al fine di rendere questo strumento veramente efficace e competitivo: “Ci sono principalmente tre sfide nel concetto di Ico:

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1) il progetto verrà realizzato oppure no? Spesso i progetti presentati con Ico sono fantasiosi, strampalati, fumosi o cose molto belle ma già tentate per decenni senza successo a causa della presenza di hard problem non risolti. Siccome si coprono campi caratterizzati da buzz-word eccitanti e da enorme asimmetria informativa, la gente crede siano tutti realizzabili. Anche perché le Ico hanno come target investitori non qualificati e senza capacità di fare due diligence. Ma il 99% di questi progetti è irrealizzabile e anche se fosse realizzabile, non ci sono incentivi perché venga realizzato: quei soldi arrivano spesso ai proponenti senza vincoli, senza strutture contrattuali, facili da imboscare.

2) Se anche il progetto verrà realizzato, i Coin rappresentano qualche diritto ben definito rispetto a quel progetto oppure no? Nella maggior parte dei casi la risposta è no. I Coin di una Ico hanno lo stesso tipo di diritto sul progetto di una maglietta mandata come reward su Kickstarter, peró gli ‘investitori’ di Kickstarter sono consapevoli che quella maglietta ha solo un valore sentimentale, mentre la presenza della forte asimmetria informativa e di buzz-word tecniche, e la possibilità di fare trading della Coin su un mercato secondario veloce e liquido (con le magliette non si può fare), rende la gente disponibile a credere che quel reward vale qualcosa. E da un punto di vista di trading è vero, nel senso che se uno rivende più alto guadagna, fino a che ci sono ‘greater fool’ a cui rivendere. Oppure il Coin dà diritti veri? Dà diritti a revenue sharing del progetto (se il progetto fa revenue, altro punto per niente probabile, anche qualora venga davvero realizzato)? O a profit sharing? O dà diritti a votare su come andrà il progetto? O è una prevendita di beni o servizi venduti dal progetto? Molte Ico adottano questa ultima impostazione perché è più facile da ‘garantire’. Ma ha davvero senso? Spesso queste piattaforme richiedono il Coin per funzionare ma in realtà piattaforme che chiedono un ‘gettone’ intermedio per funzionare sono meno efficienti economicamente, a parità di condizioni, di piattaforme identiche che però accettano, per esempio, bitcoin. “Questo perché, utilizzando direttamente bitcoin, si potrebbe trarre vantaggio da effetti network di una ‘moneta’ già esistente, invece di dover fare bootstrap di una nuova ‘pseudo-moneta’ ad hoc (consideriamo anche il fatto che si tratta di software open source: se tu realizzi la tua piattaforma che richiede la tua Coin ad hoc per funzionare, e io te la clono e ne faccio una identica, ma che richiede Bitcoin per funzionare, la mia risulta più efficiente). Allora torniamo a diritti di sconto su beni o servizi che però si possono comprare anche in bitcoin (la cosa equivale a una obbligazione rimborsabile in natura), o a profit sharing o revenue sharing o diritto di voto. Qui le cose cominciano ad avere senso. Ma arriva l’ultima domanda:

3) se anche il progetto viene realizzato, e se anche il Coin è collegato a diritti security-like, tipo restituzione obbligazione o revenue sharing o profit sharing (in bitcoin o in utilizzo del servizio) e diritti di voto…che garanzie ci sono che esista un vero enforcement su questi diritti? Prendiamo il caso del profit sharing: che garanzie ci sono che io che ho il Coin non venga ingannato sulla quantità di ricavi? E una volta che i ricavi sono onesti, che garanzia ho sui costi? E una volta che abbia anche quella, chi mi dice che i profitti mi saranno davvero distribuiti?

Qui ci sono due estremi: da una parte, ipotizziamo, la Ico è fatta da una società legalmente incorporata in una giurisdizione su cui posso agire legalmente, e ha buone caratteristiche di auditing legale. Insomma, se il patto non è mantenuto io faccio causa. Ma in questo estremo le vere domande diventano: posso fare una Ico così in modo che il sistema legale riconosca e garantisca il contratto (ovvero vendere pubblicamente ad anonimi investitori non qualificati security al portatore non regolamentate)? Se sì, allora perché tutti gli altri perdono tempo con notai e Consob e Sec e patti parasociali e bilanci revisionati? E soprattutto, anche ammesso che io possa, perché sto vendendo queste security non regolamentate su un sistema blockchain ultra-esotico, e non semplicemente sul mio sito internet, come per esempio si fa con i crediti di Zynga o i Linden Dollar di Second Life? Adesso andiamo all’altro estremo: il progetto è completamente non regolamentato, o addirittura illegale o simili. Ora, ecco che improvvisamente mi serve farlo su blockchain (se lo facessi sul mio sito il mio sito sarebbe chiuso, e non potrei mai creare una normale organizzazione che fa crowdfunding, oppure quotarmi all’Aim, perché sono per definizione illegale), e probabilmente grazie alla blockchain non c’è nulla che i regolatori possano fare per fermarmi. Del resto bitcoin non ha chiesto permesso a nessuno, semplicemente è inarrestabile. Il problema però di questo altro estremo è che ora l’investitore non può più usare un framework legale, per definizione, per garantire enforcement dei propri diritti. Allora? Chi li garantisce? Qui si entra nel campo affascinante, ma ancora molto fantascientifico, del ‘code is law’ (il codice diventa la legge, ndr). Devo avere degli ‘smart contract’ che garantiscano come minimo che il sistema sia onesto in modo dimostrabile, ovvero che se tradisce i patti tutti lo sappiano e il progetto perda tutto, come massimo ‘trustless’, ovvero in grado di seguire le promesse in modo automatico e inarrestabile e non modificabile da nessuno.

E per fare quest’ultima cosa servono piattaforme blockchain che diano: a) una garanzia di esistere per i prossimi anni (ethereum non la da di sicuro, bitcoin forse); b) una garanzia di non essere manipolabili o censurabili (ethereum ha dimostrato di essere entrambe le cose, invece per ora bitcoin tiene duro); c) una ragionevole garanzia di sicurezza e determinismo negli “smart contract” (ethereum ha dimostrato di avere una VM troppo elastica impossibile da analizzare formalmente e con enorme superficie di attacco, vedi TheDao, bitcoin è più deterministico e sicuro); d) una ragionevole espressività dei contratti (ethereum ce l’ha, bitcoin ancora no, e forse ci vorranno anni per costruircela sopra in modo sicuro); e) una ragionevole privacy per tutelare sia issuer che buyer del coin ‘illegale’ (al momento sia quella di bitcoin, sia quelle di ethereum sono di basso valore); f) una ragionevole scalabilità (e anche qui vale il discorso della privacy sia per bitcoin sia per ethereum)”.

Siamo quindi in pratica di fronte a uno strumento del tutto nuovo che sfrutta dinamiche che escono dai normali processi di investimento e che appartiene alla sfera delle cose che si possono fare sulla blockchain. Un fenomeno che quindi richiede una certa conoscenza specifica per essere approcciato e che presenta elevati livelli di rischio, ma un fenomeno che vale la pena seguire non solo come opportunità di investimento, se proprio lo si desidera, ma soprattutto come ulteriore esempio di come il ruolo dei regolatori sia effettivamente a rischio perché tecnicamente superato.

“Il punto è – conclude Zucco con una riflessione – che i problemi che ho prima illustrato saranno prima o dopo risolti e questo fenomeno spingerà i regolatori ad allentare regolamentazioni su progetti più normali e meno underground”.

Così anche se le Ico non diventeranno nel breve tempo una vera e solida alternativa hanno certamente il pregio di mostrare come un’alternativa sia però possibile e come tale alternativa richieda certo dei perfezionamenti ma tracci una strada e se i regolatori vorranno mantenere elevata la competitività degli strumenti più tradizionali, e oggi più consolidati, legalmente compatibili e affidabili, dovranno mostrarsi più aperti e lungimiranti di quando non avvenga normalmente oggi.

@emilabirascid

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