Perché gli universitari italiani hanno paura di fare impresa

Il fallimento del sistema Paese ad agevolare l’impresa e le startup sta portando a una deriva di debolezza psicologica: gli universitari italiani hanno paura di mettersi in proprio

Pubblicato il 23 Nov 2017

Bisogna separare per comprendere. Separare le startup, o meglio la nuova imprenditorialità e i suoi risultati, dal sistema e dall’ecosistema. Bisogna distinguere, cioè, tra i risultati e le potenzialità delle nuove imprese innovative rispetto all’immagine complessiva che l’ecosistema restituisce, con tutto ciò che orbita intorno.

Il problema si palesa soprattutto sotto due forme. Il primo: professionisti, manager, osservatori sono sempre più convinti ormai che il fenomeno startup coincida con il suo ecosistema che a volte appare più ‘leggero’ di quello che è veramente. Ma sappiamo che anche quando si tratta di azioni degli attori dell’ecosistema, così come accade per le startup, ciò che fa la differenza è l’execution.

Ci sono iniziative fatte bene e altre fatte meno bene, alcune pensate per creare vero valore, altre per ragioni più legate al marketing e alla visibilità fine a se stessa che portano zero valore alle startup. Ci sono le iniziative che lavorano per le startup e quelle che lavorano con le startup, le prime hanno di solito un progetto almeno a medio termine, le seconde tendono a cavalcare la moda e sono spesso fini a loro stesse. Come detto è questione di execution, cioè di come le cose vengono realizzate, e non di formati e ciò che bisogna fare è sapere selezionare i buoni dai fuffaroli.

Per fare questa selezione è però necessario conoscere il fenomeno startup un po’ più a fondo e comprenderne le dinamiche, che in molti aspetti sono uniche e spesso chi si avvicina a questo mondo questa capacità di discriminazione non la ha e da ciò deriva la incapacità di valutare ciò che esso è veramente in termini di creazione di aziende. Perché le startup sono aziende, dobbiamo ricordarlo ogni tanto, che anche in Italia sono nate e nascono, sono cresciute e crescono, alcune sono diventate multinazionali e danno lavoro a centinaia di persone, hanno attratto investimenti, anche internazionali, e sono l’espressione concreta, fattiva, strutturale, valoriale di ciò che significa fare startup, o meglio fare impresa oggi anche in Italia (le avevamo battezzate come la Champions league delle startup ), anche se la visione autarchica basata sui confini degli stati nazione andrebbe superata ma fino a che abbiamo leggi di valenza nazionale questo elemento resta come contesto ineludibile.

È però la seconda forma in cui si manifesta questo scenario quasi dicotomico che appare come la più preoccupante e di essa ho avuto un assaggio diretto nelle ultime settimane partecipando a eventi in alcune università milanesi: Bicocca, Cattolica, Bocconi in particolare, occasioni nelle quali ho incontrato molti studenti e una certa percentuale di loro mi ha mostrato un lato dell’approccio alla imprenditorialità che forse è troppo sottovalutato: la paura.

Non stiamo parlando della paura di fare impresa, quello slancio lo hai o non lo hai a prescindere, e non tutti possono o vogliono diventare imprenditori giustamente, ma parliamo della paura del contesto, della paura del sistema. E bisogna guardare al sistema nella sua interpretazione più ampia,  una valenza più vasta e profonda visto che altrimenti le sole derive fanfarone dell’ecosistema non sarebbero sufficienti a spiegare il fenomeno.

C’è la paura di lanciarsi in progetti e poi vederli miseramente fallire perché magari è stata varata una legge reazionaria a difesa delle rendite di posizione (i casi di Uber, Flixbus hanno fatto scuola purtroppo), c’è paura di rivolgersi alle istituzioni per chiedere sostegno economico perché i tempi e le modalità di erogazione di tali fondi sono spesso soggetti a incertezze e a opacità dei criteri di assegnazione. Paura per uno Stato che non dà valore al merito nemmeno quando si tratta di startup e di imprenditorialità, e qui i danni della legge sulle startup iniziano a mostrare i loro effetti anche culturali. Paura per l’incertezza del diritto e della sua tutela, paura per la pressione fiscale: professionisti privi di staff e di strutture, come spesso le startup in fase iniziale sono, costretti a pagare l’Irap, gli anticipi, i versamenti previdenziali da gestire anche prima di emettere la prima fattura.

Paura di diventare internazionali perché è difficile, perché se si arriva dall’Italia si è meno credibili, perché all’estero le aziende e le startup hanno migliori condizioni di partenza e quindi risultano maggiormente competitive. Qualcuno mi ha raccontato la storia del padre imprenditore che più in la di tanto non è riuscito ad andare perché gli adempimenti diventavano eccessivi e quindi ha preferito rimanere piccolo.

Ecco, questa paura nelle sue diverse declinazioni e gradi di manifestazione che traspira da giovani che frequentano l’università è molto preoccupante. Abbiamo sempre detto e scritto anche in queste colonne che mai e poi mai le difficoltà strutturali devono essere impedimento per fare le cose, compreso lanciare nuove aziende e sappiamo benissimo che ci sono coloro che queste paure le hanno superate e sono andati avanti, gli imprenditori della Champions League di cui sopra per esempio, ma sappiamo anche che se la cultura della imprenditorialità non è coltivata, se le ambizioni, i sogni, le aspirazioni si scontrano con un contesto poco fertile, se questa serpeggiante paura continua a crescere e a diffondersi e a moltiplicarsi con ogni nuova generazione, beh, possiamo anche scagliarci contro tutti i fuffaroli che popolano a vario titolo l’ecosistema, ma il danno che essi possono fare è assai limitato rispetto a quello che può generare un sistema strutturale che scoraggia i suoi figli più giovani. E anche qui è questione di execution, è questione di creare strumenti che funzionano, di definire norme che contribuiscano alla creazione di vero valore e che fungano da stimolo, che si concentrino su chi vuole creare impresa e sul contribuire a rendere il fenomeno maggiormente noto nella sua concretezza e capacità di produrre risultati.

Nei prossimi giorni pubblicheremo una intervista con la responsabile per il sud Europa delle attività dell’ufficio austriaco per l’attrazione degli investimenti in cui racconteremo quali sono le politiche a sostegno delle startup austriache e che in Austria desiderano andare, la differenza si vedrà basti pensare che oggi l’Austria spende il 3,14% del Pil in ricerca e sviluppo conquistando e superando così l’obiettivo che l’Unione europea ha fissato per il 2020 (il 3%) e che il suo Pil crescerà quest’anno del 2,8%, allo stato attuale più del doppio di quello italiano e che il livello di disoccupazione è ormai stabilmente sceso sotto la fisiologica soglia del 5%. E l’Austria applica incentivi per le startup che fanno uso di debito, di fondo perduto, di equity, quindi strutturalmente simili a quelli italiani, ma con una execution di gran lunga più efficace.

Come sempre restiamo però fiduciosi e confidiamo moltissimo nel ruolo delle Università che stanno portando avanti iniziative interessanti, come il recentissimo annuncio della collaborazione tra la Università Bocconi e il Politecnico di Milano a sostegno della imprenditorialità e delle startup (come scrive EconomyUp) e altre iniziative che diversi atenei stanno sviluppando. E continueremo ad andarci nelle Università a raccontare perché le startup sono una cosa importante, perché nessun limite strutturale anche il più stolto e anacronistico può fermare l’avanzata dell’innovazione e che avere paura fa bene ma è ancora meglio superarla.

@emilabirascid

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