Sentenza cannabis light, a rischio anche diverse startup

Pubblicato il 02 Giu 2019

Cannabeasy, come i negozi, ha sospeso il servizio si delivery per evitare di incorrere in denunce penali fino a nuovi chiarimenti. Ovviamente questo provoca uno stop ad un settore in espansione e che conta numerosi posti di lavoro.” Parla Francesco Albano, startupper che tempo fa, alla luce delle prospettive di business connesse a un settore considerato in espansione e a un quadro normativo che aveva in questi ultimi anni dato il via libera alla commercializzazione della cannabis light, aveva avviato un’attività d’impresa, nello specifico un’app per la vendita e consegna del prodotto. Uno dei tanti che, online e offline, ha avviato un’attività d’impresa alla luce del sole, richiesto autorizzazioni per farlo, e che oggi sono messi a rischio da una sentenza della Corte di Cassazione, che come vedremo, non ha dalla sua la dote della chiarezza.

Il tema della cannabis light, che ha creato una vera e propria industria nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti, un’industria fatta di produttori e distributori, startup e investitori (il cannabusiness) è in questi giorni sotto assedio in Italia, ma non solo.

Da oltreoceano arriva notizia di Google che vieta alle società di distribuzione della marijuana di venderla direttamente attraverso le loro app sul Play Store, (come già fatto da Apple, d’altro canto) ovvero possono promuovere la sostanza, ma non sono autorizzati ad offrire una “funzione di carrello della spesa in-app”, questo per evitare problemi con la legge federale che ancora la vieta, in contrasto alle leggi dei singoli stati, dice The Verge. 

Ma in Italia amiamo le zone grige: la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza sulla cannabis light, che sembrerebbe mettere fuorilegge la vendita di «foglie, inflorescenze, olio, resina» di cannabis, a meno che «siano in concreto privi di efficacia drogante». Per l’industria della cannabis italiana, che precedenti normative di questi ultimi anni ha contribuito a creare, una doccia gelata.

“Con la nuova sentenza della cassazione il focus si sposta sull’ Efficacia drogante.- spiega ancora Francesco Albano –  la soglia di efficacia drogante del principio attivo THC è stata fissata nello 0,5% come da consolidata letteratura scientifica e dalla tossicologia forense. Ma non è più chiaro se il riferimento sia alla letteratura scentifica oppure sia riferita ad altro.”
Proviamo a fare il punto.

Cosa prevedeva la legge prima della sentenza

Dal 2016 nel nostro ordinamento è stata introdotta la legge 2 dicembre 2016, n. 242 “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa.” , disposizioni che accogliendo le posizioni scientifiche sulle proprietà benefiche del vegetale in tanti settori, ha voluto regolamentare  la filiera di produzione di canapa (Cannabis sativa L.) e dei suoi derivati per usi diversi dalla sostanza  ‘stupefacente’ cioè destinata all’intrattenimento.

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Per uso terapeutico già da tempo il nostro ordinamento ha reso legale l’utilizzo di estratti di cannabis in alcune preparazioni magistrali e farmaci, tanto è vero che per evitare di importare tali sostanze dal 2016, il nostro Paese ha avviato una produzione nazionale di cannabis per uso medico presso lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze (SCFM), grazie alla collaborazione tra il Ministero della salute e il Ministero della difesa, in modo da garantire l’accesso a tali terapie a costi adeguati e in modo sicuro.

La legge del 2016 aveva introdotto alcune importanti novità, specialmente volte a sostenere lo sviluppo in agricoltura della coltivazione della canapa. La canapa ha qualità che possono essere sfruttate in diversi settori compreso quello ambientale, dove è un’arma naturale contro l’inquinamento.  All’inizio del 1900, prima dell’avvento del proibizionismo, in Italia si coltivavano più di 100mila ettari di canapa, nel 2015 erano poco più di 3mila. Negli ultimi anni un vero e proprio boom, che ha portato all’aumento di dieci volte i terreni coltivati, dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4000 stimati per il 2018 nelle campagne ‘dove si moltiplicano le esperienze innovative, con produzioni che vanno dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche, fino a semi, fiori per tisane, pasta, biscotti e cosmetici’ dice Coldiretti.

Oggi quella della canapa è un’industria che conta 10mila addetti, 150 milioni di fatturato, e 1500 aziende (fonte: Canapa Industriale) e, si legge nello stesso articolo, le stime europee per la canapa industriale prevedono un indotto di 36 miliardi di euro entro il 2021. Tutto questo è il mercato della canapa in generale, non solo della cannabis light, che peraltro vede sotto accusa in particolare le infiorescenze, la parte che contiene il famoso THC (il principio attivo stupefacente) e che è destinata all’utilizzo ricreativo.

Con la  legge 2016 si era eliminato l’obbligo di autorizzazione per la semina di varietà di canapa certificate con contenuto di THC massimo dello 0,2%; si era stabilito che la percentuale di THC nelle piante potesse oscillare dallo 0,2% allo 0,6% senza comportare alcun problema per l’agricoltore. Lo scorso anno una nuova circolare del ministero delle politiche agricole aveva chiarito ulteriormente che il THC dovesse essere 0,2%, con tolleranza fino allo 0.6%. E aveva introdotto le infiorescenze (mai citate prima e che sono la parte della pianta destinata a uso ‘ricreativo’), purché rispettasse gli stessi limiti di THC, regolamentando un settore nato da una sorta di ‘buco burocratico’. Questa è più propriamente la cosiddetta cannabis light, (l’altra è canapa industriale) quella che ha spinto la nascita di negozi, i growshop, oltre 400, (qualcuno ne ha contato addirittura 800) concentrati nelle grandi città e aree metropolitane; e naturalmente sono nate anche startup con applicazioni per la vendita online della cannabis light, che sono poi sostanzialmente dei servizi di delivery, come già visto in US:  ad esempio Cannabeasy, JustMary.fun (il cui fondatore ha parlato qui con Business Insider), Legaldelivery, CBDinfo, LegalWeed.

Cosa succede con la sentenza sulla cannabis light

La Sentenza della Cassazione, che avrebbe dovuto portare maggiore chiarezza, porta più confusione, roba da Azzeccagarbugli.  Come spiega diffusamente l’avvocato Giacomo Bulleri, esperto di settore, che fa il punto della situazione sul magazine Canapa Industriale (che vi invitiamo a leggere) .

Il punto è che la sentenza, che doveva rispondere a un quesito di chiarimento sulla Legge 242 ha offerto un’interpretazione restrittiva-tassativa e soprattutto ha introdotto un nuovo concetto arbitrario: l’efficacia drogante. 

“Sino ad ora, per consolidata tossicologia forense e letteratura scientifica, recepita da tempo dalla stessa Corte di Cassazione, la soglia drogante è stata fissata nello 0,5%. Per cui la sentenza delle Sezioni Unite che prima affermava il divieto di commercializzazione di prodotti fuori dalle ipotesi di cui alla L. n. 242/2016 ha invece poi affermato che condotte di cessione di derivati privi di efficacia drogante non costituiscono reato penale. Ciò determina una apparente contraddizione che potrà forse essere chiarita a seguito del deposito delle motivazioni da cui si potrà desumere l’impianto logico-giuridico seguito delle Sezioni Unite.

Resta il fatto che se l’impostazione è quella dell’informativa, in realtà le Sezioni Unite non hanno chiarito alcunché limitandosi, da un lato, ad una ennesima riproposizione letterale della L. n. 242/2016 e, dall’altro, ad afferrare l’ovvio ossia che non è reato cedere una sostanza non drogante. Pertanto, a parere dello scrivente, questa sentenza tanto attesa non ha fornito alcun chiarimento, ma anzi probabilmente ha contribuito ad ulteriore e non necessaria incertezza e confusione nel settore della cannabis light e della canapa più in generale.

Insomma, una pronuncia assai deludente che rischia di generare ancora più equivoci e che potrebbe far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta, una pronuncia che non chiarisce alcunchè se non sancire l’ovvietà, ma che, purtroppo, viene e verrà utilizzata strumentalmente da coloro che da sempre vogliono limitare questo settore per giustificare ulteriori interventi repressivi chiaramente volti alla limitazione della libertà di iniziativa economica privata.”

Le spiegazioni dell’avvocato si concludono con l’indicazione che a essere a rischio è la vendita di cannabis sativa L. al dettaglio e non i passaggi commerciali B2B tra aziende agricole e industrie che trasformano la canapa per ottenere i prodotti elencati dalla legge (alimenti, cosmetici, bioplastiche, bioedilizia ecc.); i prodotti derivati dalla canapa elencati nella legge non potranno subire alcuna limitazione per effetto della sentenza.

A essere a rischio sono quindi  tutti i negozi che vendono cannabis light e, aggiungiamo, tutte le startup di delivery che la commercializzano, alcune delle quali . come detto all’inizio, hanno momentaneamente sospeso l’attività.

Federcanapa, Federazione della canapa italiana, nata per dare voce e supporto tecnico-scientifico alle molteplici iniziative in atto in tutte le Regioni italiane e fare, sostanzialmente fare lobby, come tutte le associazioni di categoria, è però ottimista. In un suo comunicato scrive ‘ Malgrado le dichiarazioni di moltissime testate giornalistiche, la soluzione delle sezioni unite penali della Corte di Cassazione non determina a nostro parere la chiusura generalizzata dei negozi che offrono prodotti a base di canapa. Il testo della soluzione dice infatti chiaramente che la cessione, vendita e in genere la commercializzazione al pubblico di questi prodotti è reato “salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”. Per tanto la Cassazione ha ritenuto che condotte di cessione di derivati di canapa industriale privi di efficacia drogante NON rientra nel reato di cui all’art. 73 del T.U. Stupefacenti. E sul punto, da anni, la soglia di efficacia drogante del principio attivo THC è stata fissata nello 0,5% come da consolidata letteratura scientifica e dalla tossicologia forense.

Pertanto non può considerarsi reato vendere prodotti derivati delle coltivazioni di canapa industriale con livelli di Thc sotto quei limiti.

Ci auguriamo che anche le forze dell’ordine si attengano a questa netta distinzione tra canapa industriale e droga nella loro azione di controllo e che non si generi un clima da “caccia alle streghe” con irreparabili pregiudizi, patrimoniali e non, per le numerose aziende del settore. Ogni ulteriore considerazione dovrà essere rimandata alla pubblicazione delle motivazioni della sentenza da cui potrà essere desunto l’impianto logico-giuridico seguito dalla Corte e che potrà fornire ulteriori spunti di riflessione.

Diciamo che la legge italiana non ha mai espressamente autorizzato la commercializzazione della cannabis light per uso ricreativo, perchè la Legge 242 fa riferimento alla canapa industriale e alla sua filiera; ma aveva lasciato una zona grigia, l’aveva ampiamente tollerata e autorizzata a livello burocratico purchè nei limiti di THC; questo buco burocratico nessuna circolare è riuscita a ancora riempirlo, e tantomeno la sentenza ultima della Cassazione ha chiarito, o meglio ‘ha voluto chiarire’. In pratica è di quelle situazioni all’italiana, in cui si dice e non dice, in cui si vuole la botte piena e la moglie ubriaca, in cui lasciando ampi margini di manovra sull’interpretazione, la parte politica può cavalcare questa o quell’onda a seconda della convenienza. In cui si cambiano le regole in corsa, a scapito degli investimenti dei privati.

Come spesso accade in Italia, le scelte della politica e una burocrazia poco trasparente vanno a pesare sul mondo imprenditoriale.

Donatella Cambosu

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