Startup, oltre la parola c’è la cultura dell’innovazione

Il termine startup è abusato e fuorviante. Ma dietro la parola c’è un concetto, una cultura che mira a fare innovazione e rendere il mondo un posto migliore

Pubblicato il 06 Ago 2018

Qualche tempo fa un imprenditore mi disse: “noi siamo una startup, regolarmente registrata come tale nell’apposito elenco e con tutte le caratteristiche necessarie, ma quando andiamo dai potenziali clienti abbiamo smesso di presentarci come startup. Questo perché, abbiamo notato, presentarsi come startup ci dava meno credibilità, ci guardavano come se fossimo poco seri, come fossimo portatori di un fenomeno che è più mediatico che reale, insomma oggi ci presentiamo semplicemente come impresa, nemmeno lo diciamo che siamo startup innovativa iscritta al registro di Stato, tanto ai clienti nulla cambia saperlo”.

C’è in effetti un problema di percezione verso le startup? L’abbondante costruzione mediatica attorno a esse si rivela oggi più negativa che positiva? Le startup sono mediamente considerate dai potenziali partner industriali e magari anche finanziari, fatta ovviamente eccezione per quelli che in modo specifico operano nel settore, come qualcosa di poco credibile? L’esperienza dell’imprenditore citato sembra dimostrare che quando di tratta di portare un’azienda sul mercato non sempre etichettarla come startup possa essere un vantaggio.

Certo dare risposte univoche e definitive a queste domande è impossibile perché ognuno la pensa a modo suo, ma ci sono alcuni elementi che possiamo snocciolare per capire un po’ meglio se il fenomeno è effettivamente così come apparirebbe, oppure se si tratta di un problema che riguarda solo una parte del mercato e che si può superare con una maturazione culturale del mercato stesso.

Un primo tema è l’utilizzo del termine startup. Oggi lo usiamo come sostantivo quando invece è originariamente un aggettivo. Non ne faccio una questione grammaticale, gli aggettivi sostantivati sono pratica comune nel linguaggio, ma una questione di percezione. Startup, anche quando il termine è usato con accezione sostantiva, indica uno stato temporaneo. Una startup è un’impresa in fase iniziale, così come una scaleup è un’impresa in fase di crescita. È così che quindi dovrebbe essere vista, con uno sguardo che va oltre lo stato attuale, con la capacità di intuirne il potenziale, così fanno coloro che nel mondo delle startup operano e così dovrebbero fare anche coloro che nelle startup trovano persone, prodotti, soluzioni, tecnologie interessanti. Mi si dirà: che sia sostantivo o aggettivo, è proprio il concetto di fase iniziale che mina, presso chi poco conosce il mondo delle startup, la fiducia verso di esse. Ma è proprio qui che entra in gioco il tema culturale, la sensibilità verso l’innovazione, la consapevolezza che l’innovazione fatta dalle startup è assai concreta e capace di generare valore nel tempo.

Alcuni lo hanno capito e per fortuna sono sempre di più. Anche imprenditori più tradizionali e legati a modelli consolidati iniziano a comprendere la potenzialità effettiva delle startup. Certo ci sono quelle più buone e quelle meno buone ma è parte del processo di conoscenza di questo ambito scoprire e imparare a riconoscere quelle che hanno effettivo potenziale.

Lo ha capito la catena di distribuzione di prodotti elettronici in Asia che mi ha chiesto di suggerirgli nomi di startup con prodotti B2C pronti per essere messi sugli scaffali, lo ha capito l’azienda che opera nel settore alimentare tipico del made in Italy e che è alla ricerca non solo di tecnologie agro-tech ma anche di soluzioni per meglio supportare la sua espansione internazionale, lo ha capito l’azienda che opera nell’edilizia e che cerca realtà sulle quali investire per differenziare il suo business, lo ha capito l’azienda che realizza un prodotto ultra consolidato nell’ambito della mobilità personale ed è alla ricerca di soluzioni innovative a sostegno delle attività di marketing internazionale, lo ha capito l’azienda farmaceutica che vuole sviluppare il suo business non solo tramite nuovi prodotti ma anche con soluzioni capaci di accrescere e diffondere il concetto di cultura della salute personale, lo ha capito la società che gestisce un canale tv per lo shopping e vuole proporsi come ribalta per prodotti nuovi aiutandoli a farsi conoscere presso il grande pubblico.

È così che il mondo delle imprese tradizionali e quello delle imprese in fase di startup e scaleup si incontrano, quando si verificano le condizioni perché vi sia il salto culturale, la presa di consapevolezza, la capacità di guardare in prospettiva, la volontà di parlare una lingua comune per raggiungere risultati altrettanto comuni perché, alla fine, è la creazione di valore, e non solo puramente economico o finanziario, l’obiettivo che sia l’impresa consolidata sia la impresa startup o scaleup desiderano perseguire.

È quindi un tema di cultura prima ancora di essere un tema di mercato, benché siano appunto le ragioni di mercato a guidare le scelte e le decisioni. Le startup devono quindi diventare cultura di business e magari anche cultura letteraria, di pensiero, così come all’inizio dell’era di internet si formarono filoni letterali e artistici legati all’avvento delle nuove tecnologie, qualcuno ricorderà per esempio il fenomeno cyberpunk o, in Italia, il collettivo Luther Blisset e la sua emanazione Wu Ming.

Le rappresentazioni letterarie di un fenomeno sociale, di un nuovo paradigma, aiutano a renderlo maggiormente pervasivo e a dargli una connotazione che non è puramente analitica, meccanica, economica, a renderlo maggiormente trasversale e a dargli una rilevanza più profonda.

Ciò vale anche per la cultura delle startup, una cultura che, come abbiamo più volte scritto, è sintomo lampante del cambiamento paradigmatico che viviamo in questo momento storico, del processo di evoluzione del concetto di imprenditorialità, ed è essa stessa ingrediente del processo di innovazione che porta alla realizzazione di prodotti, servizi e tecnologie innovative.

Un esempio di letteratura che si ispira al mondo startup è quello di Romanzo Selvaggio, scritto, anche qui, da un collettivo che si fa chiamare Macello (edito da Alberti compagnia editoriale). Un libro certamente sperimentale, un libro caratterizzato da una ricerca stilistica e da una modalità di scrittura arditi, un libro che racconta una storia che si dipana in una Milano estiva, afosa, quasi irrespirabile, proprio come quella di questi primi giorni di agosto. Una storia che si espande nei rivoli del degrado metropolitano e che prende a prestito il concetto di startup per raccontare la parabola di un successo e una caduta in cui i protagonisti passano dall’euforia alla disperazione, in cui vi sono angeli (business angel?) alati e un modello di business improbabile. Una storia che mette in luce come il successo apparente ed effimero è una delle possibilità, ma come proprio imparando a riconoscere l’effimero si può comprendere meglio quando vi è invece concretezza.

Ecco forse una delle cose che la cultura delle startup può insegnare è proprio la capacità di imparare a riconoscere le cose di valore, a intuire quando un’azienda nascente si basa su solide fondamenta sia di business sia di approccio e di concetto, a comprendere quando vi è dell’impegno, del lavoro, una visione e il desiderio non solo di fare soldi ma di rendere il mondo un po’ migliore. Questo può essere uno dei cardini della cultura delle startup: aiutarci a separare l’effimero dalla continuità.

@emilabirascid

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