Unicorni, cavalli e muli (e la quarta F)

Pubblicato il 11 Gen 2016

Negli ecosistemi sani si allevano le startup e alcune, pochissime, raggiungono la valutazione di almeno un miliardo di euro. In Italia non succede ancora. Nel 2016 serve che tornino al centro gli imprenditori. Ai quali consiglio di cercare oltre family, friends e fools anche i fan. Sostenitori ma anche potenziali clienti.

Gli unicorni sono le startup, o meglio le aziende innovative, che hanno raggiungo la valutazione di almeno un miliardo di euro (o di dollari e il Wall Street Journal le ha raccolte in una grafica). Sopra di loro c’è anche la categoria dei decacorni, quelli che superano 10 miliardi di euro di valutazione, rarissimi. Scovare gli unicorni è operazione complessa e solo ecosistemi sani possono provare a riuscire nell’impresa (a Stoccolma ci stanno riuscendo bene) perché negli ecosistemi sani si allevano le startup, alcune, pochissime, diverranno unicorni, molte resteranno cavalli quindi con un certo successo di mercato ma non in grado di scalare ad alti livelli e diventare globali, e moltissime saranno i muli, le startup che vanno da nessuna parte, che sono progetti destinati al fallimento per vari motivi: idea balzana, esecuzione malandata, team inefficace. La gran parte delle startup fa la fine del mulo perché il mercato non le valuta interessanti e nemmeno gli investitori.

Ciò naturalmente in un sistema sano ed è per questo che in Italia ci sono tantissimi muli travestiti da cavalli, unicorni ancora nessuno.

In Italia in questi anni l’ecosistema è cresciuto con una serie di forti anomalie che oggi rischiano di presentare il conto. La principale di queste anomalie è l’eccessiva, ingombrante, inefficiente e guidata da logiche politiche e non di mercato, presenza degli enti pubblici a vario titolo. Il finanziamento pubblico che sia a fondo perduto, che sia una qualsiasi forma di garanzia – ma quando mai si fanno le imprese con le garanzie dello Stato? – che siano erogazioni camuffate da venture capital, distorce il mercato, crea una serie di pseudoaziende drogate di soldi dei contribuenti che restano in vita artificialmente e non sono in grado di superare – si qualche eccezione c’è – la prova del mercato. Quindi questi imprenditori invece di accorgersi subito che le cose non vanno si trovano nella condizione di poter prolungare l’agonia fino a che arrivano i soldi dei finanziamenti pubblici e così si creano queste startup-zombie che restano in giro, che fanno numero così si può celebrare il successo del sistema, ma che nel medio termine daranno vita a una generazione di imprenditori illusi e disillusi.

L’errore di fondo sta nel voler dare più importanza alla quantità delle startup che alla loro qualità. Certo è un errore che ha le sue motivazioni: il governo può pubblicare ogni mese la conta delle startup e dire che sono migliaia e che aumentano (e che generano anche introiti fiscali) creando così l’illusione di un ecosistema che si sviluppa; le associazioni possono fare incetta di neo-imprenditori per darsi una certa importanza, quando invece la loro credibilità dovrebbe essere costruita sulla loro capacità di agire per riportare l’ecosistema all’efficacia e per farlo bisogna partire dal principio che pone al centro gli imprenditori perché sono loro, e solo loro, il perno e il pilastro dell’ecosistema.

Ciò non vuol direi che le istituzioni non devono avere un ruolo ma si devono astenere dall’operare alla stregua dei privati che si confrontano con il mercato. Per esempio possono agire in modo da rendere la creazione di veicoli di investimento più rapida e snella, non è possibile che siano necessari 9 mesi per ottenere l’approvazione per operare come Sgr tenendo fermi fondi, e si parla di decine di milioni di euro, e investimenti che invece dovrebbero contribuire a dare ulteriore spinta agli imprenditori bravi e gli imprenditori bravi non sono tali perché lo dice un decreto ma perché lo dice il mercato e gli investitori che operano con logiche di mercato. Le istituzioni possono fare leggi intelligenti come quella che è stata recentemente approvata, il 22 dicembre scorso, relativamente alle Benefit Corporation(l’italia è il primo Paese dopo gli Usa ad avere una normativa in merito), legge che è stata scritta insieme a chi di Benefit Corporation ne sa e che, se non si cederà a logiche politiche, promette di essere efficace, ma questo lo vedremo nel corso del 2016.

E poi c’è un altro tema: l’internazionalizzazione. L’italia è ancora troppo isolata, i fondi di investimento internazionali, e a certi livelli i soldi si trovano solo nelle grande piazze finanziarie globali, ancora guardano al nostro Paese con diffidenza per via dell’eccesso di burocrazia, per via dell’incertezza strutturale e per via di mancanza di credibilità da parte del governo (il modo in cui è stato gestito il recente affare salva-banche non è certo stato visto come segnale positivo) e anche da parte del sistema economico (il costume tutto nostrano di pagare fornitori e collaboratori a mesi di distanza non è certo ben visto dagli operatori internazionali) e poi nemmeno le cose più semplici vengono gestite in ottica internazionale, pensate per esempio alla fittissima agenda di eventi che ci sono sulle startup, per le startup, con le startup e poi contate quanti di questi sono in lingua inglese. Ora non che ogni singolo evento debba essere in inglese ma sarebbe utile, così come avviene all’estero, creare più occasioni per dare all’Italia un ruolo più internazionale anche facendo leva sugli eventi. L’internazionalizzazione non è fondamentale solo per attirare capitali internazionali che ancora non arrivano e per consentire alle startup di potersi sviluppare più rapidamente, ma lo è anche perché altrimenti l’isolazionismo diverrà un problema di sostanza anche perché la concorrenza non arriva più solo dai Paesi dell’Europa occidentale ma anche da quelli della sponda sud ed est del Mediterraneo dove si sta assistendo a una crescita esponenziale del fenomeno startup e dove l’attenzione dei grandi fondi internazionali è già puntata.

Insomma serve che nel 2016 si guardi un po’ oltre la visione miope un po’ statalista e un po’ isolazionista in cui il sistema italiano delle startup rischia di impantanarsi. Serve riportare al centro gli imprenditori facendo un lavoro di supporto a quelli più bravi, quindi tenere i fari accesi più sulle startup che dimostrano di essere apprezzate dal mercato e dagli investitori e occuparsi meno di snocciolare i numeri delle neo-aziende che si autocertificano per entrare nei ranghi dettati dal decreto e che in molti casi sono finanziate dallo Stato stesso. Occuparsi più di fare crescere gli investimenti che i 130 milioni di euro attuali sono ampiamente insufficienti e il tasso di crescita degli investimenti negli ultimi anni è stato quasi inesistente, è inutile contare migliaia di startup se poi i soldi sono così pochi. Serve dare slancio a chi vuole creare nuovi veicoli di investimento e cogliere le opportunità internazionali anche in ottica di cerniera tra l’Europa e il Mediterraneo.

E per gli imprenditori un piccolo suggerimento: quando partire con le vostre startup, oltre a cercare le tre F per partire (family, friend and fool) cercatene anche una quarta, la F di fan, trovatevi dei sostenitori, coinvolgeteli nel valutare il vostro prodotto o servizio fin dall’inizio, lavorate per costruire la base utenti ancora prima che il vostro prodotto o servizio sia pronto per il mercato. Scoprirete che avere molti fan renderà la vostra startup più interessante e spingerà il vostro team a lavorare in modo più unito ed efficace.

(pubblicato anche sul blog di Emil Abirascid su EconomyUp)

Emil Abirascid

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