intervista

Angelo Tartaglia, “il nucleare non è la soluzione”

Il professore di Fisica al Politecnico di Torino illustra le ragioni per cui l’energia nucleare a fissione non può essere la risposta alla transizione energetica

Pubblicato il 02 Feb 2022

Il 2022 si è aperto con un dibattito sul nucleare che ha diviso tutti: tecnici, politici e scienziati. La causa è stata la bozza pubblicata a inizio gennaio dell’Atto Delegato Complementare sulla Tassonomia Europea. Tema delicato riguarderebbe l’utilizzo di gas naturale e dell’energia nucleare quali fonti sostenibili in un periodo a breve termine e in una fase di transizione energetica in cui le tempistiche e obiettivi sono già stati delineati nel raggiungere emissioni nette zero intorno al 2050. La Commissione sta perfezionando la sua proposta in vista dell’adozione definitiva ribadendo negli ultimi giorni che non ci sarà una riscrittura del testo, come dichiarato dalla Commissaria responsabile del dossier Mairead McGuinness in un’intervista al Frankfurter Allgemeine Zeitung.

In questo dibattito abbiamo cercato di capire come l’ecosistema innovativo e startup possano dare un contributo al Green Deal, indagando al “nocciolo” della questione e sentendo pareri diversi.

Ora, in prossimità dell’adozione definitiva dell’Atto, abbiamo intervistato Angelo Tartaglia, professore di Fisica presso il Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologia del Politecnico di Torino.

Cosa ne pensa della Tassonomia e di chi sostiene che il nucleare potrà essere un’energia sicura e illimitata?

Il nucleare non ha le caratteristiche temporali per quelle che sono le finalità della Tassonomia europea. I tempi di costruzione normale per una centrale sono di circa 15 anni: allora se gli obiettivi fissati sono di ridurre del 55% le emissioni di Co2 entro il 2030 e arrivare a parità carbonica entro il 2050, la creazione di centrali nucleari non può essere una risposta, dato che la loro costruzione è in primis un’operazione complessa e molto costosa da avviare. È poi evidente come non esistano fonti di energia illimitate. L’illusione che il nucleare possa avere una durata, non diciamo infinita ma molto lunga non regge. Già negli anni ’70 erano state fatte delle stime osservando che, se per ipotesi si sarebbe dovuto mantenere, sostenere e alimentare con il nucleare il fabbisogno di energia dell’umanità, la materia prima estraibile, in questo caso l’uranio, in costi ragionevoli e condizioni impraticabili, sarebbe durata come il petrolio – quindi misurabile in decenni: allora come garantire la sostenibilità e cosa vuol dire sostenibilità? A mio avviso riguarda un determinato processo fisico, il quale, funzionando, possa durare per un tempo che è molto più grande dei tempi ordinari umani e tale da non implicare impatti dal punto di vista fisico sull’ecosfera, biosfera e mondo intorno. Poi c’è il tema della sicurezza.  In merito il nucleare ha un’esperienza alle spalle: le centrali esistenti al mondo di incidenti ne hanno avuti diversi, tra i più famosi Chernobyl e Fukushima, però c’è stato anche quello di Three Mile Island, di Windscale (anni ’50 in Inghilterra), e poi altri meno noti al grande pubblico, perché dalle conseguenze meno devastanti ma verificate. Molte cause possibili di incidenti vengono sistematicamente sottostimate in fase di costruzione e una di queste cause è, banalizzando, la stupidità umana, come per quello di Chernobyl: un incidente avvenuto non per via di un evento imprevedibile, ma a causa di operazioni effettuate deliberatamente dal personale che gestiva la centrale e totalmente irresponsabili: hanno provato a fare un esperimento di gestione di un transitorio del nucleo del reattore manualmente – è una follia! Risultato: il personale che lo ha fatto ci ha rimesso la vita. La sicurezza come tale – vale per qualsiasi dispositivo come per una centrale a carbone o pannelli fotovoltaici sul tetto – prevede una certa pericolosità. E per gli incidenti in centrali del genere, la dimensione è vasta e tendenzialmente planetaria, con conseguenze difficilmente prevedibili e con tempi estremamente lunghi, anche perché ci sono gli isotopi radioattivi.

Poi c’è la questione delle scorie, i prodotti della fissione. La prima osservazione è che non è un problema di tecnologie: se usiamo fissione nucleare, le scorie sono un prodotto necessario, al di là dello sviluppo dei reattori – la fissione prevede la produzione di scorie. La radioattività di queste scorie è un fenomeno naturale che avviene su base statistica ed è caratterizzato da un tempo di decadimento, dimezzamento, che può durare millenni o frazioni di secondo. E non è questione di tipo di reattore. Debbo poi immagazzinarle in un luogo per il quale già da oggi possa affermare che nel tempo dell’ordine dei millenni risulterà inaccessibile a chiunque voglia per sbaglio ficcarci il naso e in particolare inaccessibile all’acqua, per il pericolo della sua dispersione. È vero che nei progetti di reattori si ipotizzano anche meccanismi tali da fare due cose: uno, rendere più efficiente la fissione, due, costruire reattori nuovi e contestualmente trattare le scorie che si producono contemporaneamente. Quest’ultimo mentalmente si può già fare ma, da una parte è un’operazione molto complessa e costosa, dall’altra il risultato che posso ottenere cambiando il tipo di isotopi, convertendoli, è farli spostare da durate di millenni a durate di secoli: il problema rimarrebbe e sarebbe lasciato alle prossime generazioni – è un comportamento irresponsabile.

L’eredità sta nel mettere queste scorie in un deposito definitivo, ovvero prendo un luogo (fatto di rocce granitiche solitamente o miniere di sale) compatto geologicamente, non sismico e senza accesso a falde acquifere. È un compito mitico, no? Esiste qualche deposito di scorie che sia stato dichiarato definitivo? No, o meglio: c’è un deposito in Finlandia vicino al sito nucleare di Olkiluoto, a qualche centinaio di metri sotto la superficie in strati di rocce granitiche e dichiarato essere un deposito definitivo. C’è un piccolo dettaglio: quel deposito non è ancora stato avviato. La previsione è che comincerà nel 2023, ma il vero problema qual è? Sì, le rocce sono compattissime, sono lì da un milione di anni, quindi, verosimilmente per un tempo comparabile saranno ancora lì, ma per scavarci dentro un deposito io devo fare delle aperture in queste rocce e scendere giù, e devo bucare il coperchio che trattiene quello che c’è sotto, per poter metterci le scorie; poi dovrei essere così bravo da risigillarlo in un modo tale per cui sono certo che per i prossimi secoli il sigillo sarà funzionante. La cosa è dubbia e ti cito due esempi: il primo è tedesco, il deposito di Schacht Asse II, una miniera di salgemma e potassio dismessa. Aperto negli anni ’60, negli anni ’90 hanno smesso di usarlo perché si sono verificate infiltrazioni dell’acqua per gli scavi effettuati. Non solo, ma dopo aver scavato per creare il deposito, guarda caso si sono riassestati e si sono verificati dei crolli nelle camere dove erano depositate le scorie, proprio per gli strati di salgemma. Lo hanno allora chiuso ma comunque non è sicuro, perché per chiuderlo bisogna tirar fuori le scorie messe finora, e quindi creare un nuovo deposito – ma si fa presto a dire! La previsione di avvio dello sgombero è prevista per il 2033, e bisognerà determinare quanto costerà e in che modo verrà fatto. Un altro esempio è quello americano, dove hanno centrali nucleari con depositi temporanei vicini alle centrali e costruiti sulla superficie, sorvegliati. Ponendosi il problema del deposito definitivo ne avevano individuato uno nella Yucca Mountain, una zona desertica. Il tutto è stato finanziato mi pare nel 2001, dopo qualche anno il Congresso ha tolto i finanziamenti per diversi motivi. Ora il deposito è ancora lì e non è più stato fatto nulla perché ritenuto sito insicuro.

Il problema delle scorie lo vediamo anche in Italia: i nostri reattori hanno prodotto molto poco come energia, però le scorie le hanno prodotte. Queste scorie sono lì e noi non abbiamo a oggi un sito dichiarato definitivo.

Come si sta muovendo la ricerca sul nucleare, e nello specifico sulle centrali?

La ricerca sulle centrali è di tipo tecnologico ed è spinta dall’industria del settore che è sostanzialmente quella francese, anche se vi partecipano altri soggetti di diversi Paesi europei come l’Italia. Questo tipo di ricerca serve a migliorare l’efficienza dei processi, ma la direzione è quella di cercare di realizzare dei reattori a “sicurezza intrinseca”: si cerca di progettare il reattore in modo che se si verifica l’incidente, le conseguenze sono contenute. Sono dei reattori che attraverso dei meccanismi tecnologici si spengono in automatico in caso di incidente. Questo tipo di reattore è possibile, ma ovviamente ha dei costi altissimi. Certo, in caso di incidente non avrò Chernobyl, ovvero non mando all’esterno il pericolo, ma quello che succede all’interno mi procura comunque una specie di “monumento radioattivo” con elevate temperature di calore, non accessibile e che rimane nel tempo lì, in quelle condizioni, per secoli e secoli e che dovrò sorvegliare; inoltre non sta sotto la superficie, come i depositi, ma sopra – allora siamo di nuovo daccapo. Bisognerà smantellarla cercando di non provocare ulteriori danni in tale operazione e con costi altissimi e poi comunque mi rimarrà del materiale radioattivo che dovrò spostare come le altre scorie sempre da qualche parte (un deposito?). Quindi, anche il reattore a sicurezza intrinseca – ottima cosa – in caso di incidente reale rimane sempre un serio problema.

Lei è favorevole alla ricerca sul nucleare?

Io in genere sono favorevole a tutte le ricerche, perché come tale la ricerca aumenta la conoscenza e la capacità di interagire con il mondo fisico che ci circonda. Ma nel caso specifico della fissione, secondo me, proprio perché è fissione, la ricerca può migliorare l’efficienza, aumentare lo sfruttamento degli isotopi fissili e così via, ma non può materialmente per leggi fisiche eliminare il problema: le scorie ci sono. Quindi è responsabile avere un vantaggio immediato per lasciare un’eredità pericolosa alle generazioni future?

In Italia sono in atto riforme e investimenti del PNRR, non indirizzati al nucleare, ma ad altre fonti di energia, quali per esempio l’idrogeno, e nello specifico l’idrogeno verde.  A oggi in quale fonte bisognerebbe investire nel nostro Paese?

Sono molto critico sulla questione dell’idrogeno: l’idrogeno non è una fonte energetica, è un vettore dell’energia, perché non reperibile in quanto tale in natura, ma devo produrlo (usando energia) e riconvertirlo in energia. In questo caso c’è sempre un problema di efficienza e rendimento e il rendimento è sempre minore di 1. Per produrre idrogeno ho sempre bisogno di energia proveniente dall’acqua o dagli idrocarburi, ma per essere coerente devo usare le rinnovabili (idrogeno verde). Bene, quindi io ho energia elettrica dalle rinnovabili e la uso per produrre idrogeno che poi userò per produrre in generale nuova energia elettrica. È un processo green? Un senso che condivido è che ovviamente le fonti come il sole e vento notoriamente sono aleatorie (non sono sempre disponibili), quindi in certi momenti posso ritrovarmi con una eccedenza di produzione quando non mi serve e in altri casi il contrario: il problema dell’accumulo. E l’idrogeno può essere pensato come una forma di accumulo: quando ho energia in eccesso che non uso, la posso utilizzare per produrre dell’idrogeno, ma quando l’energia solare non c’è, posso riconvertire l’idrogeno in elettricità. Certo che ci perdo nel passaggio, ma almeno sono coperto. Il problema è che quello che viene spinto e richiesto è molto diverso da quello che abbiamo detto finora: quando si parla dei metanodotti da trasformare ecc… la storia diventa immaginare un idrogeno che faccia le funzioni del metano. Il problema diventa l’irrazionalità della cosa, esempio la mobilità a idrogeno: posso usare già l’elettricità per auto elettriche e non ho il problema di creare una rete di distribuzione maggiormente pericolosa, costosa e che richiede più tempo per realizzarla di quanto invece richiederebbe una rete di distribuzione elettrica. E poi un altro aspetto che viene messo sottotraccia è la pericolosità, mi spiego: il metano è sì più pulito e quindi meno velenoso del gas, ma con una scintilla si provoca uno scoppio, un incendio; se l’idrogeno si mescola con l’ossigeno, quello che avviene non è che prende fuoco ma esplode in maniera più devastante del metano. Allora ritorna il discorso dell’incidente. Inoltre anche per le rinnovabili ci sarebbero aspetti negativi: se tappezzassi una parte di pianeta con pannelli solari, avrei il problema del cambiamento climatico, perché sto modificando il mantello del pianeta e con un impatto diretto nell’atmosfera.

Ma una differenza di connotazione delle fonti di energia rinnovabile è che sono distribuite ovunque. Quindi io devo riorganizzare l’utilizzo in modo da avere una fonte distribuita, non fonti concentrate e questo è persino meglio energeticamente e ingegneristicamente, perché le reti tradizionali hanno la struttura basata sull’idea della grande centrale e una grande quantità di utenti connessi. Se succede un guaio alla grande centrale ho un’area molto vasta che rimane al buio. Se invece ho una rete distribuita di tanti piccoli luoghi che producono energia e uno di questi si guasta non sarà poi così grave perché tutta la rete intorno alimenterebbe quella cella lì, quindi un sistema più stabile. Bisognerebbe allora riorganizzare la rete, in modo da far coesistere più fonti possibili e che abbiano un minor impatto possibile sull’ambiente circostante.

Come è possibile che da una parte l’Europa firmi l’Accordo di Parigi nel 2015 e dall’altra preveda una Tassonomia che include nucleare e gas come fonti sostenibili?

Con gli anni è aumentata la consapevolezza del grosso problema che ci troviamo a fronteggiare, in particolare quello climatico. A oggi la percezione di questa realtà si è diffusa, anche perché si verificano eventi climatici anomali, visibili e innegabili dallo spettatore. Tale consapevolezza spinge a cercare di trovare delle soluzioni. Poi c’è il problema degli individui che al momento “hanno maggiori vantaggi”, ovvero vertici dell’economia mondiale, coloro che hanno responsabilità di indirizzo sull’economia mondiale soprattutto dal punto di vista della finanza: amministratori delegati, capi di industrie e ministri dell’economia europei e non solo. Sono assillati dalla sindrome del dott. Jekyll e Mr. Hyde: il dottor Jekyll ha capito che bisogna cambiare qualcosa ma Mr. Hyde, colui che vede da vicino e nell’immediato i vantaggi e ha la sensazione che continuando nel cercare di fare qualcosa si debba modificare una struttura che gli fornisce grandi vantaggi, resiste e cerca di fare il contrario. Ciò avviene nell’Ue come ente: l’Ue ha fissato degli obiettivi che sono coerenti con quello che la scienza dice, ma allo stesso tempo sempre l’Ue risente delle pressioni che vengono dal mondo della grande industria e dal mondo della finanza, tende a infilare delle soluzioni che anziché essere delle soluzioni sono delle cause di peggioramento. Ecco allora gli incontri a Davos in Svizzera.

Al Politecnico di Torino nel 2017 è stato lanciata l’Energy Center Initiative, da cui sono nati il laboratorio Energy Center Lab e l’omonimo Energy Center House (EC_house). Quest’ultimo ospita aziende, startup e pubbliche amministrazioni attive in campo energetico: come si sta muovendo e quali sono i progetti a supporto di tecnologie e infrastrutture energetiche chiave da sviluppare o rafforzare?

Il mio ottimismo è che in tutta questa irrazionalità prima o poi penetri la razionalità attraverso anche normative coerenti. Mi spiego: tra i provvedimenti europei ce ne sono alcuni che vanno nella direzione giusta, per esempio la Red II, direttiva vincolante per gli Stati che la devono recepire. Il nostro Stato l’ha recepita con un decreto legislativo entrato in vigore il 15 dicembre 2021, anticipandola l’anno precedente con una norma: favorire il più possibile la realizzazione di comunità dell’energia. Non è il tocca sana, ma sono degli aggregati tra utenti dell’energia: in primo luogo ci sono i cittadini, ma anche amministrazioni e imprese, tenendo fuori istituzionalmente le imprese del settore energetico, non perché “cattive” ma perché la loro finalità è essenzialmente quella di fare profitto con l’energia, e non garantire la sua ottimizzazione. Queste comunità, che la legge italiana a questo punto prevede, si organizzano per far fronte ai propri fabbisogni di energia, utilizzando le fonti rinnovabili a loro disposizione. Qualora si diffondano, implicheranno che in un determinato territorio tutti si associno e quindi vengano responsabilizzati, non come oggi solo sul prezzo, ma nel decidere su come procurare l’energia, entrando nel merito del problema per far fronte alle proprie esigenze e non a quelle legate al mercato. Se prenderà piede – ora ci sono degli incentivi –, si avvia una rivoluzione del mercato dell’energia. Una comunità energetica non ha motivo di spingere la propria produzione di energia a crescere, ma per la propria esigenza e fabbisogno dei suoi soci. Ripeto, non ci sono soluzioni miracolose, ma strade positive. Il problema anche qui sono i tempi umani e non è detto che collimino con i tempi del sistema mondo, sistema complesso.

Al Politecnico ci sono gruppi di ricercatori e laureandi che si stanno applicando per verificare la fattibilità di questa rivoluzione. Nel Piemonte occidentale è stata avviata la programmazione e progettazione di un certo numero di comunità energetiche, in particolare nel pinerolese e cuneese ci si è riusciti grazie a un impegno di molti giovani del Politecnico. Ora questi lavori sono stati fatti in sede accademica, ma sarà necessaria una fase in cui si dovrà uscire dalla fase della ricerca e indirizzarsi su quella professione e quindi ci dovranno essere realtà che facciano progetti e gestiscano i progetti, e quindi aziende innovative specializzate in questi campi. Oggi c’è una disponibilità di competenze e “buona volontà” nelle tecnologie di ricerca. La politica però non ha ancora colto tutto questo. (Photo by dhahi alsaeedi on Unsplash )

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