Intervista

Stefano Buono, il nucleare è una opportunità anche per le startup

Il fondatore di Newcleo e investitore illustra perché l’energia nucleare può essere efficace contro il cambiamento climatico e perché vale la pena investire nell’Italia delle startup

Pubblicato il 23 Gen 2022

Si è accesa la discussione attorno al nucleare, scaturita soprattutto per la bozza da poco pubblicata dell’Atto Delegato Complementare sulla Tassonomia Europea. Tema delicato riguarderebbe l’utilizzo di gas naturale e dell’energia nucleare quali fonti sostenibili in un periodo a breve termine. L’Atto sta facendo molto discutere e dividere per diversi motivi tecnici: costi, tempi e benefici che procurerebbero in una fase di transizione energetica, e le cui tempistiche e obiettivi sono già state delineate nel raggiungere “emissioni nette zero” intorno al 2050.

La discussione è giunta anche in Italia, dove sono in atto le riforme e investimenti del PNRR, non indirizzati al nucleare, ma ad altre fonti di energia, quali per esempio l’idrogeno, e nello specifico l’idrogeno verde, quest’ultimo, come ha ribadito il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, considerato un vettore ideale.

Da una parte ci sono scienziati che dichiarano come il nucleare non possa rappresentare uno strumento utile, se richiede decenni per essere sviluppato: il problema delle scorie, i costi altissimi, l’illusione della sicurezza, e soprattutto di fronte a un’emergenza climatica che chiede di dimezzare le emissioni di Co2 entro dieci anni.

Dall’altra parte c’è chi come Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica nel 1984, che, seppur in passato ha rilevato per il nucleare “il problema di gestire una radioattività considerevole, specialmente per molti piccoli reattori”, non è del tutto scettico nel considerarla una fonte di energia possibile, avendo anche sostenuto il metodo alternativo del progetto di Newcleo, azienda innovativa fondata pochi mesi fa a Londra, con una base a Torino e capitanata da Stefano Buono, anche lui membro del CERN assieme a Carlo Rubbia, e fondatore dell’azienda biotech AAA (Advanced Accelerator Applications), che sviluppa e produce  prodotti per la medicina nucleare, quotata al Nasdaq nel 2015. Negli ultimi anni Stefano Buono è anche chairman di LIFTT, società operativa di investimenti che promuove un modello etico di impresa ispirato all’ESG e che a dicembre 2021 ha completato 21 investimenti in startup innovative, da una pipeline di oltre mille, operanti su tutti i settori di mercato.

Abbiamo voluto porre alcune domande proprio a lui, Stefano Buono, non solo perché impegnato nel nucleare e nell’ecosistema innovativo e startup, ma anche per la sua visione più internazionale delle tematiche inerenti a queste due realtà.

Il problema del nucleare in questa fase storica italiana riguarda solo la sicurezza, le scorie e i tempi di realizzazione, oppure anche gli investimenti, un piano politico di finanziamenti, magari supportato da un ecosistema innovativo dove scarseggiano startup, centri di ricerca o innovation hub che possano fornire un maggiore contributo e supporto?

Sicuramente in Italia il know-how e le startup non mancano, perché noi nel mondo siamo stati i promotori del nucleare da Enrico Fermi in poi, e rimane un know-how solido, forse in mano a un personale più anziano, ma d’altra parte vedo che dalle università italiane continuano ad arrivare ragazzi ben formati in queste materie. Però il nucleare non consiste solo nel nocciolo, ma in un sistema complesso di produrre energia: ci sono i materiali, le turbine, scambiatori di calore. Ha bisogno di un know-how in campo ingegneristico e in Italia c’è, è forte, anche a livello industriale. Lo dimostra il fatto che le aziende italiane oggi forniscono i progetti di ricerca e sviluppo come iter che fanno parte di progetti di fusione, e che tecnologicamente sono delle sfide cento volte più complicate e più difficili che fare una macchina di quarta generazione a fissione nucleare. Oggi il vantaggio della fissione è che noi la conosciamo da settant’anni, ma purtroppo negli ultimi trentacinque non c’è stato un vero sviluppo del nucleare, perché dall’incidente di Cernobil è nata una paura diffusa che ha portato essenzialmente un blocco di questa tecnologia: non si è più innovato. Allora come si innova? Sui disegni, concettualmente in simulazioni, codici validati ed esperimenti a supporto. Oggi sulla carta esiste la possibilità di sviluppare un nuovo nucleare. Allora perché dicono che ci vogliono dieci anni? Perché è un tempo normale anche per fare una macchina semplice ma che non deve fallire, per essere assolutamente sicura. Se oggi volessimo sviluppare un nuovo aereo con tecnologie moderne, non basterebbero solo tre anni: bisognerebbe qualificarlo, testarlo. Allo stesso tempo con il nostro design innovativo in sette anni potremmo avere un prototipo funzionante e industriale, il precursore di una filiera. Non è pochissimo, ma nella scala dei problemi da risolvere nell’energia è quasi un battito di farfalla, perché non dobbiamo fare qualcosa entro il 2050, ma qualcosa per i prossimi secoli. Ed è quasi assurdo pensare che un tipo di tecnologia così avanzata non si faccia prima o poi, e solo per le paure di un incidente del 1987 e per le paure infondate di un incidente del 2011 – infondate perché quest’ultimo, quello di Fukushima, non ha creato dei morti: da una parte c’era un sistema di produzione di energia che aveva sessant’anni e che stava per chiudersi entro sei mesi in quanto vecchio e dall’altra un incidente di calamità naturale enorme che ha causato 200 mila morti. Dal punto di vista di un incidente nucleare non ha causato né morti né conseguenza radiobiologica al Pianeta. Quindi di fatto è un incidente che ha dimostrato che il nucleare già adesso è una tecnologia sicura ma con un pochino di ricerca, applicando tutto quello che si è imparato negli ultimi settant’anni, può diventare una tecnologia totalmente sicura e sostenibile. È chiaro che ci sono le scorie, ma anche qui la ricerca permetterebbe di annullare il problema, perché il problema delle scorie è molto relativo e di nuovo dobbiamo guardare indietro negli ultimi cinquant’anni: se io come persona in tutta la mia vita posso racchiudere tutta la mia produzione di energia in una pallina da ping pong oppure decidere di bruciare 280 tonnellate di carbone, probabilmente sarà più facile contenere l’impatto verso l’ambiente in una pallina da ping pong, piuttosto che dopo aver bruciato 280 tonnellate di carbone. Quindi di fatto dovremmo valorizzare l’opportunità che l’energia nucleare ci offre di avere una produzione molto concentrata, e di eliminare quello che di pericoloso c’è in quella pallina. Tutto questo si può fare con approcci tecnologici differenti. Quindi a lungo termine per me il problema del nucleare non esiste, perché una continua innovazione ci può portare a gestire questa fonte di energia in modo totalmente sicuro e più sostenibile di altre forme di energia.

Da una parte abbiamo il PNRR e la tassonomia europea che non prevedono il nucleare, ma, dall’altra, realtà come la sua (Newcleo): invece di creare startup su fonti alternative come l’idrogeno verde, fonda un’azienda che si occupa di Accelerator driven system (Ads), metodo alternativo che si basa sulla combinazione di un reattore subcritico, con un acceleratore di particelle e l’utilizzo del torio come carburante naturale per ridurre rifiuti radioattivi e la possibilità di incidenti. Sembrerebbe che tutte queste fonti alternative non possano sostituire il petrolio, carbone e gas, ma garantire nel frattempo una diminuzione di Co2 e preparare la strada a una energia che potrebbe in futuro sostituire del tutto i combustibili fossili. Si sta quindi preparando il terreno per il nucleare nei prossimi 20 anni?

Sì, ma possiamo dire nei prossimi 100, 1000 anni. A mio avviso il nucleare farà parte del prossimo futuro. Poi quanto lo farà velocemente o lentamente in questa fase della nostra evoluzione come umanità dipenderà anche dalla politica. Ma succederà, succederà perché io credo che di fatto sia una fonte pulita e illimitata di energia. Quindi è un nostro obbligo come ricercatori, come investitori, come persone che ci credono il sostenerlo e svilupparlo. Oggi esiste nel mondo molto sostegno al nucleare, perché difatti ci sono 37 Paesi che lo utilizzano e ci sono altri che lo stanno per utilizzare. In Italia no, ma all’estero la ricerca continua: stanno arrivando i famosi reattori di quarta generazione. Per esempio, in Cina e in Russia li stanno già costruendo. È quindi particolare che, non solo un Paese ma un intero continente come l’Europa- centro di know-how notevole – debba abbandonare un tipo di ricerca così: semplicemente non ne farà parte, come se, nella mia visione, avessero scoperto il fuoco e una popolazione decidesse di non svilupparlo perché pericoloso in quanto ci si brucia, mentre tutto il resto del mondo lo usa, eppure il fuoco è stata una tecnologia che l’umanità ha poi utilizzato, senza poi discuterne così tanto. Oggi lo stesso vale per il dibattito sul nucleare: lascia un po’ il tempo che trova dal punto di vista scientifico e di sviluppo. Succederà! Allora perché non aiutarlo, e magari con la consapevolezza di farlo in modo sostenibile? L’Europa ha una sensibilità nei confronti della sostenibilità talmente sviluppata che meriterebbe di far parte di questa ricerca in modo importante. 

La Francia vuole investire altri 10 miliardi di euro in startup e PMI innovative. Vuole essere la startup nation d’Europa. Così il presidente Macron nell’evento Vivatech lo scorso anno aveva dichiarato e partecipato. E con il piano France 2030 sembra aver già cominciato, stanziando circa 4 miliardi di euro per le startup e imprese innovative. Perché l’Italia non riesce a emergere come la Francia a voler diventare una startup nation? Cosa deve cambiare?

È un problema culturale, prima di tutto, però dobbiamo anche dire che qui c’è una evoluzione forte. Io lo posso affermare da un osservatorio molto privilegiato: sono il chairman di una società che si chiama LIFTT, nata come uno dei possibili strumenti per favorire l’innovazione tecnologica in Italia, finanziata dalla Compagnia di San Paolo e dal Politecnico di Torino e io come imprenditore che ha investito già in 26 startup prima di LIFTT, ho voluto portare un’esperienza diversa, credo più moderna, a quello che oggi si chiamerebbe investimento all’innovazione o venture capital. La mia esperienza è che questo mio messaggio è stato molto bene accolto – LIFTT ha già raccolto 30 milioni di euro – in questi giorni faremo un’altra operazione – e ha riaperto a un altro aumento di capitale da 15 milioni di euro. Questo rientra in un sistema che sta evolvendo, perché comunque per la prima volta l’Italia ha superato il miliardo di euro di investimenti in VC. Siamo un po’ indietro rispetto ad altri Paesi però sta succedendo anche a noi, e sono ottimista anche in questo. Sento e conosco tanti investitori, sento la volontà sia dei fondi sia degli investitori privati di voler agire su un sistema di innovazione e partecipare a questo tipo di investimento che è più precoce e a bassa liquidità. Come testimone posso dire che stiamo evolvendo favorevolmente e le cose stanno cambiando.

Qual è il settore di più interessante su cui investire in startup?

Guardando nella lista degli investimenti che nell’ultimo anno sono stati fatti in LIFTT, secondo me lì c’è una bella sfilza di nomi nei quali in questo momento stiamo credendo. LIFTT è ormai uno dei più grandi investitori in Italia e lo sarà sempre di più, perché stiamo raccogliendo sempre più soldi – ormai abbiamo un team che supera le venti persone e un tipo di investimento molto più operativo, cioè noi seguiamo le aziende, facciamo coaching, e le aiutiamo a compensare il know-how che loro non hanno: per esempio, molto spesso accade che c’è un know-how scientifico ma né commerciale né di governance. Ed è qui che li aiutiamo: siamo infatti degli investitori attivi che non aspirano a un controllo ossessivo dell’azienda, ma vogliono che l’azienda si sviluppi e cresca senza imposizioni, senza le imposizioni tipiche del venture capital, di cui la più difficoltosa è quella di avere un tempo limitato. Quindi siamo una società operativa, che assomiglia più a un fondo evergreen, cioè a un’attività che rimarrà nel futuro e che, non imponendo alcun limite di tempo come da venture capital, può creare un modo diverso di fare innovazione e di sostenerla per il lungo periodo.

Oggi si può fare impresa in Italia?

Dal mio punto di vista, tanto vicino all’innovazione quanto alla creazione d’impresa, sono molto positivo nei confronti dell’Italia. Anzi, è un momento in cui si riesce un pochino a cambiare quello che è stato il sistema del fare impresa italiano, che tendenzialmente è sempre stato più familiare: dove non si pensa ad una società in cui magari si parte con la minoranza – le grandi società italiane sono società familiari che sono lì da generazioni e che sono aperte invece a una finanza internazionale. Noi di LIFTT invece stiamo proprio facendo il contrario: prediamo posizioni minoritarie e spingiamo gli imprenditori a favorire l’entrata di capitali piuttosto che al controllo della società, e allo stesso tempo a generare una maggioranza; cerchiamo di focalizzare gli imprenditori sulla crescita, su una crescita veloce, piuttosto che su una crescita lenta e strutturale, insomma una crescita attraverso il capitale, modelli che non sono nuovi, ma meno sviluppati in Italia, quindi, un atteggiamento meno comune in Italia di quanto lo sia negli USA e Israele, UK e Francia, dove invece si ha l’abitudine di avere tanti capitali a disposizione per le startup.

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