Il caso CureVac e l’innovazione patrimonio dell’umanità

La vicenda della startup biotech tedesca CureVac che Trump vorrebbe comprare per ottenere in esclusiva il vaccino per il Sars-Cov-2 mette in luce la necessità di gestire in modo nuovi gli investimenti strategici

Pubblicato il 17 Mar 2020

CureVac è al momento la stella più brillante del firmamento delle tante aziende biotech che nel mondo stanno lavorando allo sviluppo di un vaccino per fermare la pandemia Covid-19. CureVac è tedesca ma negli ultimi giorni è stata oggetto di attenzioni da parte del governo Usa che avrebbe voluto acquistarla per portare tutta la sua ricerca negli Stati Uniti e utilizzare il vaccino, una volta pronto, in via esclusiva. Operazione che è subito arrivata sui giornali, il primo a scriverne è stato il tedesco Die Welt am Sonntag (l’edizione domenicale di Welt) e poi la notizia è stata ripresa da tutte le principali testate del globo (tra loro Reuters , Financial Times , Corriere della Sera )

La faccenda ha anche contorni misteriosi visto che appena la notizia è uscita il CEO in quel momento in carica Daniel Menichella si è dimesso ed è stato sostituito da Ingmar Hoerr che è uno dei fondatori della società (FierceBiotech ne scrive qui). Hoerr però, secondo un comunicato dell’azienda del 16 marzo  ha deciso di prendersi un periodo di riposo per curarsi (non dal Covid-19) e sarà sostituto temporaneamente da Franz-Werner Haas che è il Chief Corporate Officer della società.

Le speculazioni di cronaca dicono che Menichella è molto vicino al presidente Usa Trump e che sarebbe stato lui l’uomo alla guida dell’operazione per portare CureVac in Usa, operazione fallita perché il governo tedesco si è messo di mezzo bloccando ogni velleità, e da ieri gode anche del pieno supporto politico e finanziario della Commissione Europea che ha emesso un comunicato in cui annuncia di avere messo a disposizione 80 milioni di euro di finanziamenti per sostenere la ricerca di CureVac.

Inoltre la stessa CureVac il 15 marzo in un comunicato ha sottolineato di essere impegnata nello sviluppo di un vaccino basato su mRNA per proteggere dal coronavirus le persone di tutto il mondo.

Fino a qui la cronaca, ma questa vicenda, che si evolverà ulteriormente nei prossimi giorni e che, si spera possa darci al fine il vaccino, ci aiuta a fare alcune considerazione sull’importanza e sulle modalità di finanziamento alla ricerca. Ieri Anna Amati nel suo articolo già metteva in luce alcuni punti sui quali sarà opportuno sviluppare ulteriori riflessioni alla luce dei nuovi paradigmi che emergeranno al termine della attuale fase di emergenza globale, ma la storia di CureVac ci offre ulteriori spunti.

Per meglio capire perché proprio CureVac sia entrata nel mirino di Trump siamo andati a vedere, grazie a PitchBook, chi ha finanziato l’azienda fino a ora. Il principale investitore e azionista è un signore tedesco che si chiama Dietmar Hopp e che fu, nel 1972, uno dei fondatori di SAP ed è anche il principale finanziatore della squadra di calcio TSG 1899 Hoffenheim. Hopp controlla l’80% di CureVac, che ha la sua sede principale a Tubinga e uffici a Francoforte e a Boston da dove operava Menichella, tramite la Dievini Hopp Biotech Holding. Oltre a Hopp, CureVac, che sempre secondo Pitchbook ha raccolto fino a oggi 1,04 miliardi di dollari, ha ricevuto finanziamenti da Bill and Melinda Gates Foundation (che proprio recentemente ha annunciato il suo impegno per arginare il virus come abbiamo scritto qui) da Eli Lilly and Company Foundation, da Landeskreditbank Baden-Württemberg-Förderbank, LBBW Asset Management Investmentgesellschaft, Baillie Gifford, Chartwave, Coppel Family, Northview and Sigma Group, The Vanguard Group, Boehringer Ingelheim, Commissione Europea, DH Capital, OH Beteiligungen, Leonardo Venture.

Una compagine decisamente articolata che vede in prima fila gli investitori tedeschi ma anche un forte impegno da parte di quelli Usa (si noti che alcuni investitori sono partner industriali come è elencato in questa pagina così come lo sono anche la Harvard Medical School e la Yale University School of Medicine) . È forse da qui, ovvero dal fatto che vi è alle spalle di CureVac un grande impegno da parte di investitori e istituzioni statunitensi, che è nata l’idea che CureVac potesse essere facilmente portata in Usa? Nel caso specifico sarebbe stato impossibile non solo perché Berlino e Bruxelles hanno alzato gli scudi ma anche perché l’investitore di maggioranza è tedesco e molto legato al suo territorio (fa anche il business angel di startup della zona della Germania in cui vive) e inoltre non si può sapere se gli investitori Usa sarebbero stati d’accordo con l’operazione, ma è interessante prendere il caso a esempio per fare qualche riflessione in merito.

Fino a oggi, quindi fino a prima di Covid-19 si è assistito a un gioco di posizionamento tra investitori e innovazione biotech che soprattutto in Europa ha avuto anche qualche deriva politica, ricordiamo per tutti il caso dei fondi ITATech gestiti dalla francese Sofinnova (qui il più recente degli articoli che abbiamo scritto sul tema), un gioco che non è più sostenibile, un gioco che nel mondo post-coronavirus non troverà spazio perché vi saranno nuove regole del gioco e saranno molti i paradigmi che cambieranno quando l’emergenza sanitaria sarà finita a partire dal fatto che la scienza si riprenderà il posto che merita. Nel nuovo quadro non si potrà più fare a meno di considerare gli investimenti in biotecnologie come strategici, e bisognerà farlo a livello di istituzioni e la UE potrebbe giocare un ruolo forte in ciò, anzi potrebbe usare questa opportunità per iniziare a ricostruire la sua reputazione verso i cittadini dell’Unione e a riplasmare un ruolo che deve essere profondamente rivisto.

Un altro elemento a cui stiamo assistendo è che, fuor di retorica, le startup e le scaleup possono salvare il mondo. Ciò è facile da intuire oggi in piena emergenza sanitaria ma è un discorso che può valere anche per aspetti come il climate change (si sta studiando come l’inquinamento da polveri sottili possa avere un ruolo con la diffusione di Covid-19), la gestione di cibo e acqua, le migrazioni, le inefficienze sociali e la fase di ricostruzione dopo l’attuale emergenza che riguarderà ogni settore: finanza, trasporti, turismo, energia, industria, logistica ecc. E se le startup e le scaleup possono salvare il mondo diventa fondamentale investire in esse e servono quindi protocolli, modelli, strategie, accordi che impediscano che una startup o una scaleup che ha una tecnologia, una soluzione, un prodotto che diviene vitale, si trovi nella infelice condizione di dover scegliere se dare priorità al Paese in cui è nata o al Paese da cui provengono i suoi investitori. Insomma questo tipo di scenario non deve verificarsi e nel quadro del mondo post-coronavirus serviranno nuovi schemi affinché una scelta simile non debba porsi.

Ciò che rischia di accadere è che Cina e Stati Uniti continuino a combattere per il dominio delle tecnologie e quindi del mondo – dice a Startupbusiness Pierluigi Paracchi, CEO di Genenta – . Se così dovesse succedere non ci sarà la ‘pace nel mondo’ ma la rivalità e al momento sarebbe difficile per la UE competere in uno scenario simile. Ciò che considero fondamentale è che operazioni come quella tra ITATech e Sofinnova non è saggio che si ripetano, sarebbero inaccettabili perché al biotech serve una UE unita e coordinata in quanto è strategico per ogni singolo Paese dell’Unione”.

Ecco che idee, tecnologie, brevetti, talenti diventano patrimonio di tutti e come tali devo essere trattati e gestiti. Se un’azienda ha una tecnologia fondamentale come è il caso di CureVac è giusto che riceva fondi da tutti ed è giusto che ciò accada se l’azienda è tedesca, francese, cinese, statunitense o italiana, non è più rilevante la territorialità, già nel mondo delle startup e delle scaleup il concetto di identità nazionale è sottile perché ogni imprenditore saggio sa che deve andare dove può fare crescere al meglio la sua startup indipendentemente dalla sua origine, ora è opportuno che si faccia una ulteriore riflessione e si inizi a considerare l’innovazione (sempre salvaguardando gli interessi degli investitori che altrimenti perderebbero la loro ragione di esistere), in primis quella strategica e capace di fare la differenza, come patrimonio dell’umanità.

Este artículo también está disponible en español gracias a Michele Iurillo 

@emilabirascid

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