Un miliardo di euro nel deep tech italiano, ecco la nuova rivoluzione

Pubblicato il 12 Apr 2021

Stefano Peroncini

La storia italiana scientifica e industriale è costellata di occasioni perse: la chimica, il nucleare civile dove eravamo una delle prime potenze al mondo, il farmaceutico che andrebbe potenziato rappresentando oggi una delle prime voci di export, il digitale sul quale siamo sempre a rincorrere le altre economie avanzate per diffusione, per utilizzo, per sviluppo tecnologico.

Ho letto “L’Italia nella rete: ascesa, caduta e resurrezione della net economy” scritto dall’amico e collega venture capitalist Gianluca Dettori insieme a Debora Ferrero. Un libro che scorre, che guida e interessa il lettore lungo oltre 70 anni di storia, anche se lascia un po’ l’amaro in bocca. Il nostro Paese poteva essere tra i protagonisti della rivoluzione digitale che ha cambiato per sempre il modo di vivere e di lavorare e invece siamo rimasti ai margini, illusi per un breve momento e drammaticamente frastornati dopo il famigerato scoppio della bolla internet, nel marzo 2000.

Il libro racconta da lontano lo straordinario potenziale che abbiamo avuto come Paese, dalla nascita di Olivetti nel 1908, che nel 1950 immetteva nel mercato la mitica Lettera 22 (una macchina da scrivere portatile poi esposta anche al MoMA di New York) e poi il primo calcolatore elettronico d’Italia nel 1954 (al Politecnico di Milano) che fu il secondo a essere acceso in Europa; dall’Omnitel che ha inventato il mercato della telefonia mobile consumer a Carlo De Benedetti a cui Steve Jobs offri di investire un milione di dollari in cambio del 20% della proprietà di Apple.

Abbiamo raggiunto risultati straordinari, se presi singolarmente, nell’informatica negli anni dal dopoguerra in poi, ricordati dal libro, ma ahimè nessuno come “sistema Paese”. Ecco alcuni passaggi significativi raccontati dal libro.

  • Nel 1965 Olivetti presenta a New York quello che viene considerato il primo Personal Computer al mondo, P101, che anticipava la rivoluzione informatica che sarebbe avvenuta anni dopo. Nel 1985 Olivetti è la terza casa produttrice al mondo di computer, dopo IBM e Apple.
  • Nel 1986 l’Italia diventa il quarto Paese al mondo a connettersi a internet insieme a Norvegia, Inghilterra e Germania.
  • Nel 1994 L’Unione Sarda va online, secondo quotidiano al mondo dopo il Washington Post.
  • Nel 1995 Omnitel entra nel mercato italiano della telefonia e in quattro mesi acquisisce 130mila clienti, pari al 44% del mercato GSM. “Dopo cinque anni Omnitel da sola aveva nove milioni di clienti e TIM altrettanti. L’Italia diventa la prima nazione al mondo a sviluppare un significativo mercato di massa per i telefonini, dimostrando una capacità di guidare e modellare un mercato con innovazioni, come per esempio le carte prepagate e gli SMS”.
  • “L’Italia a metà degli anni ‘90 era uno dei primi dieci mercati di internet, oggi nel ranking internazionale sulla digitalizzazione è al 42° posto.”
  • Nel 1996 nasce Virgilio, la prima directory italiana sul modello di Yahoo.
  • Nel marzo 1999 è Tiscali a partire coi primi servizi in Europa di accesso a Internet senza canone di abbonamento (secondo solo a Freeserve), con Tiscali Free Net; “oltre a offrire internet gratis inizia ad abbinare al servizio anche telefonate gratuite via internet (Skype ancora non era stata inventata)”. Nel giro di quattro mesi dalla quotazione “Tiscali valeva 13 miliardi di euro (+1.800 per cento dalla quotazione base), un decacorn che capitalizzava più del gruppo Fiat”.
  • Nel 1999 Vitaminic (fondata dallo stesso Dettori), forte di “contratti firmati con ottomila case discografiche, 500mila band e 10 milioni di brani da tutto il mondo era il più ampio catalogo musicale digitale legale presente su internet.”
  • “Da fine 2001 a fine 2003 My-Tv (il primo sito di contenuti video generati dagli utenti, all’epoca diretto da Salvo Mizzi) era il sito di video più visto in Italia”; chiuse i battenti nel 2004, YouTube sarebbe nata nel 2005.
  • Kiwi I rimane a tutt’oggi uno dei fondi con la miglior performance nel venture capital in Europa. Grazie alla quotazione di Tiscali, nel giro di poco meno di due anni il fondo aveva completato l’80 per cento degli investimenti e aveva restituito ai sottoscrittori i capitali investiti moltiplicati più volte.”

La rivoluzione nel digitale oggi possiamo dire che si è conclusa, anche grazie alla digitalizzazione di massa imposta dalla pandemia covid-19 e che stiamo sperimentando da febbraio del 2020, quando a molti sembrava poco più che un raffreddore. Una rivoluzione che in Italia non siamo stati in grado di sfruttare, nonostante i lodevoli tentativi dei tanti imprenditori le cui storie sono ben raccontate dagli autori.

Però ci siamo ripresi. Questo lo spirito ottimista finale del libro: e in effetti oggi possiamo dire – nonostante un endemico ritardo rispetto agli altri Paesi europei – di avere un sufficiente ecosistema orientato all’innovazione e alle startup, fondi di venture capital che aumentano nel numero e nella dimensione media dei fondi gestiti rispetto al decennio precedente, investitori istituzionali del calibro di CDP Venture Capital ed EneaTech che immettono nel sistema risorse finanziarie solo un anno fa inimmaginabili, anche nel technology transfer dedicato a sostenere iniziative “science-based”; corporate italiane che investono in fondi di venture capital e che acquisiscono startup; e infine, nonostante il recente pasticciaccio sulla costituzione online delle startup, una legislazione fiscale di incentivo agli investimenti in startup tra le prime in Europa.

Guardiamo al futuro: se era il lontano 1995 l’anno in cui David Filo e Jerry Yang, due studenti di Stanford, convincevano il fondo di venture capital Sequoia a investire due milioni di dollari nel loro progetto (Yahoo), oltre 25 anni dopo anche in Italia cominciano a esserci operazioni significative sul mercato degli investimenti in digitale: ricordiamo per esempio i recenti maxi (per le dimensioni italiane) round nelle startup italiane Everli (delivery on demand, ex Supermercato24, 100 milioni di euro), Casavo (real estate instant buyer, 200 milioni di euro), Cortilia (e-grocery, 34 milioni di euro), Satispay (fintech, 93 milioni di euro).

Che queste operazioni nel digitale creino effettivo valore al momento dell’exit è ancora tutto da dimostrare, ma siamo sulla strada giusta. Come ci ricorda Gianluca Dettori nel suo libro, “L’Italia non ha accettato la rivoluzione digitale e quando ha iniziato a interessarsene era troppo tardi.”

Ma c’è un’altra silenziosa rivoluzione che sta per accadere, quella del deep tech, di cui mi occupo quotidianamente come venture capitalist, che ha dei fondamentali ancora più importanti e che in Italia poggia su un “ramificato e solido sistema accademico, con centinaia di anni storia” come ricorda il libro, e su centri pubblici di ricerca scientifica di riconosciuta eccellenza mondiale.

Intelligenza artificiale, big data, materiali avanzati, nanotech, quantum computing, additive manufacturing, robotica, biotech, blockchain sono alcune delle tecnologie emergenti e disruptive del futuro. L’ultimo report elaborato da BCG in partnership con Hello Tomorrow evidenzia come le deep technology rappresentino la quarta ondata di innovazione mondiale. La prima ondata consisteva nella prima e nella seconda rivoluzione industriale. La seconda ondata è stata guidata principalmente da laboratori aziendali come IBM, Xerox Parc, con team multidisciplinari di alto livello fortemente coinvolti nella comunità scientifica, impegnati nella ricerca di base. La terza ondata ha visto il declino della ricerca aziendale e l’emergere di piccole imprese dirompenti, sostenute da capitale di rischio, che in seguito hanno definito un modello “Silicon Valley” incentrato su IT/digitale e biotecnologia. Proprio come ogni ondata è cresciuta dalla precedente, la quarta ora sta acquistando slancio. E come nei primi anni ’90, quando internet stava iniziando a prendere piede e noi in Italia neanche riuscivamo a comprendere cosa stava succedendo.

Le iniziative deep tech sono caratterizzate da alcune caratteristiche principali e ben distintive: 1) sono orientate alla soluzione di problemi e non sono guidate dalla tecnologia. Si collocano peraltro nella convergenza delle tecnologie (il 96% delle imprese deep tech utilizza almeno due tecnologie e il 66% utilizza più di una tecnologia avanzata). 2) Basandosi sui progressi derivanti dalla rivoluzione digitale, le deep tech technology hanno spostato l’innovazione dal mondo digitale (bit) a quello fisico (bit e atomi), sviluppando principalmente prodotti fisici, piuttosto che software (83% delle imprese deep tech stanno attualmente costruendo un prodotto con un componente hardware). 3) Infine, le iniziative di deep tech si basano su un ecosistema di attori profondamente interconnessi, senza i quali non possono prosperare.

A livello internazionale gli investitori hanno realizzato l’enorme potenziali di queste tecnologie: dal 2016 al 2020 gli investimenti globali in società deep tech sono cresciuti da 15 a più di 60 miliardi di dollari. Analizzando i dati sulle startup, l’ultimo sondaggio Hello Tomorrow ha confermato un aumento degli importi per singolo investimento da 360mila dollari a 2 milioni di dollari tra il 2016 e il 2019.

In Italia abbiamo un potenziale enorme da sfruttare: ci raccontiamo da sempre l’incredibile eccellenza dei nostri ricercatori e ora abbiamo anche i capitali dedicati al technology transfer (e quindi alle deep technology) nella misura di almeno un miliardo di euro: i 5 fondi finanziati dalla piattaforma ITAtech, promossa da Cassa Depositi e Prestiti e Fondo Europeo per gli Investimenti, che negli anni hanno raccolto – secondo i dati raccolti in AIFI nell’ambito del Tavolo di Lavoro sul Tech Transfer – oltre 285 milioni di euro, da investire in progetti di technology transfer in Italia; CDP Venture Capital, pronta ad investire 150 milioni di euro tramite il Fondo di Fondi dedicato al technology transfer; ENEA Tech, con ben 500 milioni di euro da investire in progetti strategici del Paese attraverso iniziative di technology transfer.

Se poi pensiamo che in maniera “opportunistica” anche altri fondi più tradizionali di venture capital investono circa  50-70 milioni di euro all’anno in iniziative “science-based”, arriviamo proprio a un miliardo di euro di capitali allocati nel nostro Paese alle deep technology.

Saremo capaci come imprenditori, investitori e policy-maker di cogliere questa nuova rivoluzione industriale e a non sprecare l’ennesima occasione? Io penso di si, magari specializzandoci su alcuni filoni specifici del deep tech, ma sono convinto che questa può essere davvero la volta buona in cui il treno non lo perdiamo.

Stefano Peroncini, amministratore delegato EUREKA! Venture SGR

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